lunedì 29 marzo 2010

Monopoli, rischiare non conviene

L’aritmetica può attendere. Il Monopoli si ferma in casa, ma senza disperarsene. Perché davvero nulla, in fondo, è compromesso: la salvezza, cioè, è sempre lì, a pochi metri. Ma, contro l’organizzato Cassino, al Veneziani, la formazione affidata alle cure di Chiricallo parte imballata e arriva un po’ scarica. Nel mezzo del match, certo, c’è un equilibrio sostanziale: che non serve. O meglio: che serve all’avversario per studiare e ottenere quel che cerca, ovvero il successo che gli permette di mantenere le distanze dalla zona playoff. Il Monopoli, da sùbito, è irretito dai ciociari: che si esprimono meglio negli spazi ridotti, portando palla con maggior sicurezza. Senza rinunciare ad un pressing robusto e a ripartenze puntuali. Lanzillotta e compagni faticano ad uscire dalla propria metà campo: ma poi la manovra si inspessisce e qualche fiammata è sventata da Indiveri, monopolitano tra i pali del Cassino, assai attento in almeno tre occasioni. Fiammate, appunto. Del resto, le fonti di gioco biancoverdi si inarisiscono progressivamente: quanto basta ai laziali per riconquistare campo, fiducia e sorriso. Zero a uno e nessun punto: il verdetto è amaro, ma neppure tragico. Però, sarà bene chiudere in fretta la pratica e sigillare la permanenza con la matematica. Rischiare, in un campionato così strano, non è consigliabile.

domenica 28 marzo 2010

Fasano, occasione persa

Navigava lontano, il Fasano. Lontano dalla realtà del campionato. E da tutte le avversarie. Sottomesso da una classifica che lo considerava, da almeno due mesi, retrocesso. Solo le stranezze del pallone lo avrebbero rivitalizzato all’improvviso: in coincidenza con qualche risultato sufficientemente incoraggiante (come la vittoria ottenuta in casa del Bitonto, l’ultima domenica) e con l’incedere difettoso dei concorrenti alla salvezza. Il derby con il Grottaglie (anticipato al sabato) è diventato perciò assolutamente decisivo ai fini della coltivazione dell’ultima speranza, che si chiama aggancio al vagone dei playout, male minore in coda ad una stagione nata stanca e trascinata a fatica. Derby strano, ma anche occasione sostanzialmente perduta. E non perché l’avversario abbia palesemente demeritato. Anzi: il Grottaglie di Maiuri, indimenticato ex, in trasferta giostra molto meglio, con maggior personalità. Perché, forse, non avverte il peso di dover costruire la partita. E approccia come deve, passando a condurre di due gol: ringraziando prima il guardasigilli di casa Comes e poi l’intero assetto difensivo, va detto. Occasione perduta perché l’Ars et Labor, con il tempo, un po’ si sbiadisce e un po’ si accontenta, lasciando il secondo tempo a Pistoia e soci. Davvero inguardabili dietro (per leggerezza, svagatezza e concentrazione) e, alla fine, poco fantasiosi per sfondare. Il pari di chiusura (due a due) ci sta, peraltro, per intero e conferma chiaramente i problemi di una squadra, il Fasano, che non è sul fondo della graduatoria per caso. Occasione perduta perché sono proprio queste le partite da vincere, cioè il termometro di una condizione, il segno sotterraneo del risveglio. La gente di Geretto, piuttosto, insegue il sogno (il recupero sulle terz’ultime), si scontra con il vento (dicevamo del doppio vantaggio grottagliese), ma non completa l’impresa. Fermandosi, cioè, al culmine dello sforzo. Chinando la testa di fronte ai propri limiti strutturali: salvaguardando, almeno, la propria volontà. E sì: il Fasano, che da principio non è eccessivamente convinto del proprio ruolo, ritrova lentamente l’orgoglio. Che, talvolta, non basta. Come non basta una certa supremazia territoriale esercitata nell’ultima mezz’ora del derby. Non c’è la forza, non c’è l’istinto: e un dinamismo sordo non produce sempre pressione tangibile. Occasione persa, dunque. Anche se la matematica invita ancora a crederci: e, magari, ad amareggiarsi sino in fondo. Comunque, ad attendere: il miracolo, chissà. Mentre le notizie (da verificare) cominciano a viaggiare: l’ex presidente D’Amico starebbe armando (o riarmando) una task force per riconsegnare dignità al club. In D o in Eccellenza: comunque vada a finire, cioè. Si agita qualcosa, sembra: anche se in ritardo. Ma, a questo punto, ben venga quello che potrà venire. Per non perdere un’altra occasione. Quella della vita.

mercoledì 24 marzo 2010

E il Taranto continua a cercarsi

Fischi. Dissenso. E cattivi presagi. Il Taranto di Passiatore riparte da dove aveva lasciato Dellisanti. E non ci sono progressi. Anzi: dopo un po' di pareggi maldigeriti, arriva la sconfitta che il penultimo tecnico non aveva neppure conosciuto. Sconfitta grave, perchè allontana la squadra di un punto (ora sono tre) dalla zona playoff, oscurando pure l'ottimismo degli inguaribili. Ma, innanzi tutto, perchè certifica la confusione in cui galleggiano tutti. Nessuno escluso. Ad esempio, il nuovo coach ridisegna lo scacchiere: privandosi - e non senza polemiche sotterranee - di qualche singolo di spicco. E sistemando in tribuna Giorgino, cioè il giocatore più continuo dall'inizio della stagione. Prezioso per le proprie caratteristiche tattiche, oltre tutto. Il Taranto, comunque, non entra mai davvero in partita. Non la indirizza, non la possiede. Anche perchè continua a non dimostrare anima. Anima che, talvolta, fiorisce dal consolidamento della struttura, dalla lievitazione della fisionomia. Ecco: il Taranto non c'è anche perchè continua ad inseguirsi. Perchè, allenatore dopo allenatore, cerca se stesso nella rotazione degli schemi, dei moduli e dei protagonisti. Non c'è un Taranto di base, non c'è un profilo di riferimento. A due mesi dalla fine della regular-season, la squadra non ha un'identità precisa, ma fluttua tra uno schieramento a una, due o tre punte, senza aver ancora capito come giostrare e, soprattutto, con chi. Il Taranto è un cantiere in continua evoluzione, anche adesso che il campionato sta finendo. E paga l'inseguimento un po' irrazionale ad una quadratura che non arriva. La fibrillazione stringe e costringe: anche se non è più tempo di scelte. Ed è questo l'ostacolo più alto verso i playoff.

martedì 23 marzo 2010

Giannini, questa volta è proprio vero

Il Gallipoli annaspa. In classifica (l’ultimo insuccesso casalingo contro il Brescia, ancorchè illegittimo per quello che il campo ha lasciato vedere, è assolutamente fastidioso: da adesso in poi, occorrerà sgomitare, per salvarsi) e dentro di sé. Giannini, i cui malumori circolano frenetici da almeno un mese, è stanco e lascia la panca. Dimissioni, come l’altra volta: accerchiate dalla certezza che il percorso in campionato, da solo, c’entri poco. O che, comunque, concorra appena. No, il malessere è radicato nella scarsa fluidità di comunicazione con la proprietà, per esempio. E nei malintesi che hanno ormai innervato il rapporto. Ma, soprattutto, nella difficile situazione societaria, negli stipendi che non arrivano (e che, pare, non arriveranno), nel deterioramento del rapporto di fiducia tra il gruppo e chi lo dirige. Nella consapevolezza di non poter confidare più nel progetto e neppure nel domani: perchè i segnali malvagi ci sono e stanno minando le fondamenta della costruzione. Mentre, evidentemente, continuano a incidere quelle frasi messe da parte per un po’, ma sempre pesanti, che hanno preceduto e seguito l’ammutinamento della squadra di febbraio e il chiassoso screzio in tribuna tra l’allenatore e il presidente D’Odorico durante il match disputato contro il Grosseto. Intanto, il Gallipoli sembra sgretolarsi. E l’abbandono di Giannini, il vero collante dell’organico e, quindi, del bagaglio di speranze di salvezza, sembra accelerare il processo di avvelenamento dell’ambiente. Proprio all’indomani dell’ultima dichiarazione del patron, stritolato dall’impotenza gestionale (i conti societari sono ormai vigilati dall’autorità giudiziaria, dopo le accuse dell’ex presidente Barba), dallo stallo delle proprie risorse economiche, dalla questione-stadio (gli steward attendono di essere pagati e anche il Comune di Lecce, proprietario della struttura in cui la squadra gioca le gare interne, vuole essere saldato) e dalle pressioni di popolo che soffiano forti. D’Odorico, forse per provocare oppure no, avrebbe ventilato l’idea di restituire a Barba le quote societarie che ancora non ha onorato finanziariamente. Probabilmente, quello che l’onorevole attendeva di sentirsi dire: al di là della trattativa che potrebbe eventualmente seguire. In sostanza, la soluzione che oggi ci sembra meno traumatica per tutti, la più indolore. Anche quella più semplice e suggestiva. Ovvero, la più conveniente, per il Gallipoli. Che, altrimenti, non possiede alcun futuro sostenibile.

lunedì 22 marzo 2010

Il Grottaglie si ripete. Ma la salvezza è ormai certa

Sembra non essere cambiato niente. Anche se gli assilli sembrano dissolversi: per demerito altrui, essenzialmente. Difetta, come un tempo, il risultato (il Grottaglie inciampa a casa propria, per la sesta volta). E difetta pure la prestazione: priva di slanci, ma – soprattutto – di anima. Come in altre occasioni, appunto. La squadra di Maiuri, mai caratterialmente convincente, questa volta si fida anche delle apparenze. E ci rimette tutto. Si fida di un match che possiede tutti requisiti di una sfida di fine stagione: senza molta storia, cioè. E senza tanti motivi di discussione. Di una partita sacrificata ad un pari di convenienza, ad un confronto fondato da un tacito accordo di non belligeranza. Dove non accade niente per tutto il primo tempo e che una traversa colpita da De Angelis sveglia solo a metà ripresa. L’episodio che è forse il peccato originale: perché, infranto il patto, la Forza e Coraggio Benevento prova a dire la sua, passando con la prima e unica occasione procurata. E ritrovandosi, alla fine, con due punti in più. E sì: il Grottaglie, da lì in poi, non costruisce abbastanza per recuperare l’equilibrio. Scoprendo di dover pagare tutti i minuti precedenti, in cui si accontenta. I campani, allora, ringraziano. E salutano, senza essersi sforzati troppo. La distanza di sicurezza tra il Grottaglie e il baratro, però, resta quella che era: undici punti. E’ l’unico dettaglio che può soddisfare: riconoscendo che l’occasione per chiudere il discorso definitivamente è svilita in novanta minuti ancora una volta anonimi. La salvezza, dunque, è paradossalmente più vicina: perché il Bitonto annega nella crisi e si fa soffocare addirittura dal Fasano. E, in più, gli altri potenziali avversari faticano puntualmente. E’ la verità un po’ ingombrante (ma non per il Grottaglie, evidentemente) di un torneo davvero scadente. Il peggiore, tecnicamente palando, degli ultimi venti anni, in quinta serie. Senza opzione di smentita.

venerdì 19 marzo 2010

Taranto, è il momento di Passiatore

La quarta versione stagionale del Taranto parte dal Pescara, da un match che incrocerà le sorti di due formazioni solleticate da medesime ambizioni, mai padrone assolute del concetto di continuità, eppure supportate da pronostici autorevoli e passione popolare. La quarta versione stagionale del Taranto è quella di Francesco Passiatore, tarantino verace e trentanovenne rampante. Il nuovo nocchiero che succede a Franco Dellisanti è ufficialmente insediato, dopo giorni di militanza semiclandestina: la deroga (un allenatore sprovvisto del patentino di seconda categoria non potrebbe operare tra i professionisti) è ormai concessa dal Palazzo e non occorre più attendere. La nuova guida tecnica debutta tra qualche dubbio (il gruppo, si dice, non avrebbe accolto la novità con il sorriso e la gente diffida di un tecnico privo di esperienza specifica) e nel mezzo di una situazione delicata, dal punto di vista degli equilibri interni. E la prossima sfida diventa immediatamente un crocevia di sentimenti e di opportunità: perché, dai prossimi novanta minuti, passano molte motivazioni che concorreranno a progettare lo sprint finale. Inutile, cioè, nascondersi: un’eventuale sconfitta appesterebbe l’aria – già pesante – che si respira attorno al Taranto, cittadella arroccata attorno al silenzio stampa e ai duelli ideologici che dividono la proprietà e gli operatori dell’informazione. Passiatore, allora, anche per questo dovrà farsi forte. Magari, con il coraggio, l’entusiasmo e l’incoscienza di chi si cala in problematiche neppure immaginate, soltanto due mesi fa. Quando, senza essersi mai seduto in panchina, accettò l’offerta di guidare la formazione “Berretti”, liberata proprio da Dellisanti. Particolare che – inutile negare pure questo – potrebbe rivelarsi pericoloso per il Taranto, che insegue caparbiamente la serie B, e per lo stesso coach (il rischio di bruciarsi alla prima vera opportunità, ovviamente, è elevato). Anche se proprio Passiatore, pensandoci bene, ha più da guadagnare, che da perdere: perché, evidentemente, l’eventuale epilogo felice del campionato finirebbe per valorizzarlo definitivamente. Tuttavia, l’ostacolo più scomodo del Taranto non è il nome dell’allenatore, ma quella strana alchimia ambientale che si è venuta a creare attorno e dentro la squadra. Che passa anche e soprattutto dalle scelte quotidiane e dalla serenità gestionale di un organico che immaginiamo legittimamente confuso e anche un po’ provato. Lo sa il mondo intero e dovrebbe averlo capito anche Passiatore. E ci incuriosisce sapere come affronterà la prova. Per niente agevole. Auguri, dunque: ne avrà bisogno.

giovedì 18 marzo 2010

Manfredonia, un problema in meno

Tenere il confronto, per novanta minuti, non è sufficiente. E non è necessario neppure il pubblico consenso. Soprattutto, se il difetto che sfiora il collettivo travolge il risultato. Se il calo di tensione, più o meno isolato, è quasi sempre decisivo. Se il problema di deconcentrazione, prima o poi, aggredisce la prestazione e produce la sconfitta. Il Manfredonia, dall’inizio della stagione, sembra potere reggere il discorso con chiunque. E, alla fine, cade puntualmente. Traduzione: i playoff sono sempre una minaccia concreta. E la paura è sempre lì, ad inseguire la squadra di Bucaro. Che spreca, una dietro l’altra, tutte le occasioni per ritagliarsi un futuro più tranquillo. Esattamente come domenica passata. In casa di una delle avversarie meno prolifiche del girone, la Vibonese, Marruocco e compagni si lasciano maltrattare (tre a zero), consegnando agli archivi una delle partite peggio gestite del campionato. Unendo alle difficoltà di interpretazione della manovra, anche un preoccupante deficit psicologico, evidente durante e dopo i novanta minuti. Deficit che, talvolta, può condurre alla rassegnazione: un dettaglio che il trainer non ha saputo sottovalutare. Riconsegnando, sùbito dopo la fine del match, il proprio mandato alla società. Intelligente, però, nel valutare la situazione e nel respingere le dimissioni. La decisione, così, finisce per rafforzare la posizione di Bucaro: che, peraltro, continua a godere di ottima stampa e dell’appoggio della gente che tifa. Mettendo la squadra, come si dice e si scrive in casi come questo, di fronte al proprio operato, di fronte alle proprie responsabilità. E privandola di qualsiasi alibi. Quando riprenderà il campionato, all’indomani dell’ultima sosta imposta dal calendario, si riparte per Gela. Sin lì, c’è tempo per rituffarsi nel lavoro quotidiano e per focalizzare alcuni punti essenziali, da cui passa il destino del Manfredonia. Sgravato, se non altro, da un problema: Bucaro, cioè, rimarrà sino alla fine (anzi, il contratto del coach siciliano è stato prolungato anche per il prossimo campionato). La squadra, perciò, si concentri sull’obiettivo. In sette giornate, può accadere molto oppure poco. E la salvezza non è affatto irraggiungibile.

mercoledì 17 marzo 2010

Più cinque, l'Andria va

Più cinque. Il vantaggio dal quartiere caldo dei playout non assicura ancora niente, ma comincia a essere rilevante. L’Andria di Papagni va. E cresce: lentamente, ma compiutamente. Il posticipo serale del lunedì (due a zero al Lanciano, formazione niente male, lontana dal proprio campo) offre la reale dimensione di quest’ingranaggio lubrificato con molto lavoro e pazienza, passando attraverso la stagione dei dubbi, delle insicurezze e delle paure. Di questa squadra che attende e colpisce, riflettendo la mentalità del suo nocchiero. Che lascia fare, ma che sa anche cosa fare. E che si affida alla rapidità dei suoi artiglieri: quella necessaria per forzare il dispositivo arretrato degli abruzzesi (dagli undici metri) e per raddoppiare a primo tempo quasi svanito. Prima di presidiare con ordine per tutta la seconda manche della partita. Sy (due gol) è l’uomo del match, ma s’impone il collettivo. Tutti cooperano per il bene comune: l’Andria, oggi, è un gruppo solido, un blocco sufficiente a se stesso. Dentro, ci sono tutti principi del mutuo soccorso. Dentro ci sono le coordinate di compattezza che aiutano a affrontare meglio l’ultimo sforzo. E, dentro, ovviamente, c’è tutta la razionalità di Papagni, tecnico che sa plasmare il materiale a propria disposizione. Senza allarmarsi: anche nei momenti più bui.

martedì 16 marzo 2010

Dellisanti e il divorzio annunciato

Avevamo ipotizzato l’esonero, cioè la beffa: per chi, da aziendalista più o meno convinto, si sarebbe trovato – molto presto – a ripararsi dai cattivi risultati e dall’esuberanza del suo presidente. Al quale, evidentemente, non bastano l’obbedienza o l’accondiscendenza, se non arrivano i punti. Ma, invece dell’esonero, sono arrivate le dimissioni di Franco Dellisanti: più o meno pilotate dalle circostanze e dalle convenienze. Certe volte, cambiano le parole. Non il senso. E così, il Taranto vive il suo quarto (e ultimo?) cambio di panchina in una sola stagione: numeri che, solitamente, accompagnano una squadra sulla via della retrocessione. E non una che galleggia al di qua della soglia dei playoff. Ma la storia è complessa, oltrechè datata: e ci pesa anche riassumerla. Basterà, allora, spiegare che la decisione del coach (o della società, o di entrambi: che cambia?) segue il pareggio grigiastro di Potenza: dove, forse, neppure una vittoria avrebbe potuto sanare certe crepe che hanno ultimamente segnato i rappoti interpersonali. Anche se un successo avrebbe ufficialmente rilanciato la rincorsa di Migliaccio e compagni. In Lucania si fa preferire la formazione del gladiatore Capuano, nemico consolidato di ruvide battaglie. E non conforta affatto la prestazione priva di spunti e di personalità del Taranto contro l’ultima della classe. Un Taranto ancora imbattuto, ma pure confuso. Detto questo, tuttavia, rimane un sospetto: e se la risoluzione del rapporto fosse già maturata prima della trasferta? Non che cambi molto, comunque: anche questo fa parte del gioco. E ne siamo consapevoli: più di chi si affretta a smentire. Punto e a capo, allora. Con un capitolo nuovo. E un nuovo nocchiero, che arriverà in queste ore: chissà quanto consapevole del vero ruolo che l’attende. E del proprio peso specifico all’interno del progetto, soprattutto. Un progetto che fluttua su equilibri sempre più labili. Che Dellisanti, intimamente ispirato dalla sete di riscatto, ha rifiutato di considerare prima e affrontato poi, quando ormai era tardi. Lasciandosi travolgere ancora una volta dagli eventi, dai personaggi e dalla propria fragilità.

lunedì 15 marzo 2010

Brindisi, la rincorsa si spegne

La prima impressione è che il sipario sia calato. E che il Brindisi, peraltro mai dentro la zona playoff prima di adesso, si sia davvero allontanato dal club dai pretendenti alla promozione di scorta. La caduta (interna) di fronte alla Juve Stabia fa male: per il risultato in sé, ma anche per la prestazione che lo determina. E che disegna una squadra stanca e scarica, appannata e fragile. Malgrado l’avvio del match, rassicurante. Esatto: la squadra di Silva esordisce ragionando e mettendo palla a terra. In fase di non possesso, poi, sa pressare l’avversario, che preferisce un profilo più compassato e che, però, sa puntualmente ripartire. Cioè, preferisce la manovra al ritmo, condizione che non le impedisce di cogliere il vantaggio dagli undici metri. Il Brindisi, per un po’, continua pure a mantenere iniziativa e supremazia territoriale, ma poi si ferma, si siede. Anzi, si perde, dopo che i campani sfiorano il pari e, infine, lo ottengono. La gestione dell’ultima porzione del primo tempo, per intenderci, è timida, difettosa. E tutto si complica nella ripresa, quando la Juve Stabia – più lucida, meglio quadrata, ordinata e molto pratica - realizza il sorpasso, su calcio franco. Da qui in avanti, quindi, l’intorpidito Brindisi faticherà a impostare la manovra, vanificando la tenue rabbia e arenando la rincorsa al quinto posto. Fine della storia di un match fondamentale. Ma, ovviamente, non del campionato, aritmeticamente parlando. Non ancora, almeno. Anche se l’incapacità certificata a monetizzare le partite che contano di più qualcosa significherà pure.

domenica 14 marzo 2010

Lecce, risveglio inquietante

Evidentemente, la flessione dei risultati (quattro pari di fila nelle ultime quattro uscite del Lecce) era parte integrante di un processo di indebolimento della manovra e del profilo psicologico della squadra. Amplificatosi nel match in cui, invece, la formazione di De Canio avrebbe dovuto rassicurare la sua gente e legittimare la propria leadership nel torneo di serie B. La prestazione, di fronte al Cittadella, sull’erba di casa, è di quelle che lasciano pensare, al di là dello score sconveniente ed esagerato. Il rovescio, per cinque a uno, è uno schiaffo irriverente e netto, faticosamente digeribile. Ed è il frutto di una gara opaca, incerta, macchiata da disguidi e da un atteggiamento incomprensibile. Perché il Lecce non partecipa, limitandosi ad assistere. E non reagisce, nè si ribella. Piegandosi supinamente. Di più: la capolista non entra mai in gara, privandosi in mezz’ora della possibilità di rimediare. E solo la mediocrità altrui (davanti, Grosseto e Ancona a parte, si fermano anche tutte le altre concorrenti) le permette di conservare poltrona e vantaggio. Lo stato di crisi, cioè, è dichiarato. E va fronteggiato. Ci prova sùbito il coach, distillando parole che provano a distrarre dalla squadra il peso della disfatta: «Mi accollo tutte le responsabilità, non sono riuscito a preparare la gara come avrei dovuto. Siamo mancati fisicamente e mentalmente». Operazione lodevole, senza dubbio: ma sufficiente a sfuggire dalla realtà solo per un po’. Il disagio sembra ampio: e il difetto nell’approccio ai novanta minuti non basta a giustificare la brutta figura. Proprio mentre comincia a preoccupare il calo atletico, se di quello si tratta: in prossimità del rush finale non è una bella notizia.

giovedì 11 marzo 2010

Bitonto, la speranza passa dal suicidio altrui

Prima la pioggia (abbondante, da ventiquattr’ore), poi la nebbia (cala in prossimità del calcio d’avvio). Bitonto-Francavilla, confronto gonfio di paure diffuse, è test difficile per tutti, anche a causa delle condizioni del terreno di gioco. Che infastidisce quasi quanto l’involuzione di due formazioni affannate da un po’. Quindi tese e psicologicamente provate. Il derby infrasettimanale (e a porte chiuse, sul neutro di Martina) comincia in ritardo (di quasi tre quarti ‘dora) e decolla tardi. Il Bitonto è meno reattivo, più legnoso. Indeciso. E più pesante: strano, per una formazione di sostanza. Che, sul fango, dovrebbe invece resistere meglio. Ma la testa è, probabilmente, piena di pensieri: non ultimi, gli stipendi che ritardano. Il Francavilla, invece, è più dentro la partita, malgrado i propri limiti di coordinazione. La squadra di Pizzulli, dopo appena venticinque minuti, perde anche Armento (doppia ammonizione) e resta in dieci. La gente di Ruisi, oltre tutto, gestisce meglio (e di più) la palla e si mantiene alta. Possiede il destino del match nelle proprie mani: ma non intensifica l’offesa, non stringe, non aggredisce quanto basta. Non conclude in porta, ecco. Il suicidio (comportamentale, prima ancora che tattico) si sta compiendo. Anzi, si compie nella ripresa. Quando il Francavilla scompare e si rianima il Bitonto, finalmente più denso. Quando Palmieri fallisce l’uscita e la presa alta e Montefusco può battere a porta vacante. E’ ancora sgrammaticato, il Bitonto: ma, almeno, recupera temperamento. Buono per arrivare al novantesimo senza subire (traversa di Maraschio a parte). Il minimo che si può pretendere da una squadra nata per aggrapparsi sul carattere. Senza il quale si intristisce. E intristisce.

mercoledì 10 marzo 2010

Playoff, c'è pure il Barletta

Il Catanzaro? No, meglio il Barletta. La capolista? No, meglio chi insegue. E chi, all’improvvviso, ha trovato appetito e maniere giuste. Cioè, la continuità. E un balcone con vista sui playoff. La gente di Sciannimanico vince (con merito) il match teoricamente più difficile e si ritrova più avanti di quanto si potesse pensare. Anche perché, contemporaneamente, si fermano il Brindisi, il Siracusa e il Gela. Scriviamolo, malgrado proprio da queste stesse colonne penetrava una certa diffidenza, pochi giorni addietro: adesso, Carozza e soci sono in piena corsa per un posto nella griglia finale degli spareggi per la promozione. Se non altro, perché l’entusiasmo può generare nuovo entusiasmo. O perché lo scacchhiere potrebbe aver raggiunto la quadratura definitiva. Sia chiaro: pensiamo ancora che il Barletta non sia più dotato delle concorrenti. Che, anzi, strutturalmente, offrono maggiori garanzie. E immaginiamo che lo pensi anche l’allenatore: esattamente come uno o due mesi fa. Ma è pure innegabile che, in quarta serie, nulla è scontato e che, ormai, sarebbe vile sottrarsi alla lotta. Ben sapendo che il risveglio potrebbe disegnarsi amaro. E che una eventuale delusione, a queste latitudini, potrebbe nuocere, ovvero complicare il percorso del programma societario, che punta ad una lievitazione naturale del progetto. La classifica, comunque, dice alcune cose e a queste cose occorre rapportarsi, in questo momento. Un momento in cui certe voci circolate nei giorni precedenti l’ultimo match hanno giustamente indispettito il vertice del club. Ma il temuto accordo con il gemellato Catanzaro, evidentemente, non c’è stato. Dalle polveri delle polemiche sotterranee, allora, resta il biscotto esibito dal presidente Sfrecola davanti alle telecamere, a partita conclusa. Un gesto ironico che scaturisce da un’amarezza mal contenuta e che, però, potrebbe contribuire a cementare un rapporto: quello tra una tifoseria esigente e una società che sta lavorando in profondità, con slancio e intelligenza. Quel rapporto che potrebbe diventare l’elemento in più da sfruttare nel rush finale. Proprio perchè, a questo punto, provare non costa niente.

martedì 9 marzo 2010

Dellisanti e quell'accusa scomoda

Sette giorni grigi (caduta a Giulianova, pari contestato dalla gente nel derby con il Foggia, in casa) bastano e avanzano per decurtare il patrimonio di simpatia e di consenso che il Taranto aveva laboriosamente reuperato nei primi due mesi dell’anno. Eppure, la classifica influisce (o dovrebbe influire) poco sugli animi popolari: perché, in fondo, la squadra di Dellisanti continua a controllare da vicino (due punti) il quartiere dei playoff, che è poi l’obiettivo di riserva dichiarato dalla proprietà. E che resta un traguardo da disputarsi, come sempre, in primavera. La gente, piuttosto, si sente tradita: tradita da un organico ritenuto finalmente affidabile e, invece, riscopertosi sbiadito. Da una squadra che subisce ancora pochissimo (anzi, niente), ma che non produce (condizione essenziale per rincorrere). Da un gruppo che, nel derby, comincia discretamente e finisce in affannno. Da un Taranto che invita tutti ad illudersi e poi disillude. Premesso che spaccare tutto è, oggi, anacronisatico (ci ripetiamo, ma la piazza è quella che è: prendere o lasciare), il calo non sfugge agli osservatori attenti. E male si combina con le parole spese affrettatamente nel corso della settimana da chi possiede il controllo del club. Parole che producono, è bene chiarirlo una volta di più, malumori e, magari, anche tensioni dentro lo spogliatoio e attese infinite al di fuori. Il calo di rendimento, e quindi anche di risultati, diventa intanto anche un calo di autostima. Che non protegge. Ma, al di là di tutto, aleggia su Franco Dellisanti un’aria strana, sempre di più. Un’aria strana e, da domenica, anche un’accusa grave. Indotto (o costertto) dalla pressione presidenziale, il tecnico avrebbe stravolto il volto tattico del Taranto, optando a gara in corso per le quattro punte e per il conseguente choc strategico. Preferendo inserire singoli più graditi a chi opera dietro la scrivania ed escludendo l’esterno Cuneaz, propedeutico al modulo di partenza. A cose fatte, peraltro, il coach confessa in parte il peccato. Ammissione che, fossero fondati i sospetti maturati nell’ambiente, non lo ripara però dal rischio di perdere per sempre l’appoggio affettivo di chi tifa. Né dalla prospettiva di vedersi, prima o poi, privato dell’incarico. E, dunque, anche beffato.

lunedì 8 marzo 2010

Ruisi, partenza niente male

Il condottiero è esperto e duro. Quanto basta per farsene un vanto, appena la battaglia infuria. Pietro Ruisi, siciliano verace, è tecnico ruvido e, dicono, anche ossessivo: prima, durante e dopo la partita. Il nuovo nocchiero sta già martellando il Francavilla senza spessore degli ultimissimi tempi, dopo averlo rilevato dalla gestione-Francioso. Esattamente dopo la rinuncia di De Rosa ad aderire nuovamente al progetto. Ruisi, invece, ha accettato di provare a restituire alla squadra risultati e fiducia. A salvare, almeno, quello che si può: perché, appunto, quando il gioco si fa duro (e difficile), i duri sanno cosa inventarsi. L’esordio ufficiale sulla panca del Francavilla coincide con un pareggio. Da non disprezzare per quello che rappresenta: l’alba dell’auspicabile lievitazione di un gruppo apparso, se non altro, rimotivato. Un pareggio, cioè un solo punto, per di più fruttato sul terreno amico, di fronte al Sant’Antonio Abate, sparring partner di categoria con solide ambizioni da playoff: apparentemente, non tanta roba, ma responso ugualmente beneaugurante. Perché, in fondo, nella prima gara del nuovo corso, c’è qualcosa di buono. Malgrado la partenza rischiosa (i campani passano in vantaggio dopo quattro minuti), la compattezza dell’avversario e lo smarrimento che ne consegue. Il Sant’Antonio, del resto, sa arrivare per primo sulle palle più importanti e per Ferrari e soci è difficile organizzarsi. Con il tempo, però, la formazione di Ruisi si rincuora, recupera la grinta e s’industria anche nel fraseggio. La manovrà non è sempre fluida, ma la seconda metà del primo tempo è complessivamente convincente. Il pareggio di Radicchio, cioè, rende giustizia alla voglia di riemergere del Francavilla. Che si associa, perché no, ad un calo di tensione dei partenopei. A ripresa in corso, poi, il calcio prodotto è meno lucido, ma adesso la squadra se la gioca. Non lesinando impegno, sino all’ultimo. E non rinunciando ad un peraltro inutile forcing finale. Cioè: la prima sensazione è che Ruisi abbia trascinato con sé carattere e motivazioni, due ingredienti dispersi per strada troppo presto. Forse sufficienti a raggiungere l’obiettivo, o forse no. Ma, al momento, il trainer palermitano sembra essere l’uomo giusto. Al momento giusto.

domenica 7 marzo 2010

Gallipoli, il crollo è verticale

Il problema è chiaro, da sùbito: il Gallipoli fatica a scrollarsi certi timori e l’approccio alla gara è soft. Troppo. La gente di Giannini rinuncia a darsi un tono e a dotarsi di un ritmo, concedendo al Padova ripartenze e libertà. Così, il vantaggio degli ospiti (siglato dall’argentino Cuffa, uno che anni addietro giocava in Eccellenza pugliese, a Castellaneta) mette Mounard e soci di fronte alla realtà, obbligandoli ad osare. Ma difetta la reazione. Anzi, il Gallipoli è assopito, quasi assente. Non piace neanche sotto il punto di vista della corsa e dell’impegno. Attende chissà cosa: e l’involuzione degli ultimi tempi si fa imbarazzante. L’avversario, di contro, si esprime con semplicità, approfittando di tutto e gestendo meglio la palla. Agli albori della ripresa, poi, il Padova raddoppia con Soncin e si fa davvero dura. Non è sufficiente neppure il sigillo del due a uno, firmato da Volpato, e che pure sembra restituire un po’ di verve e di fiducia. Né l’espulsione del patavino Trevisan. Certo, ora il Gallipoli ci crede, ma è troppo tardi: perché il Padova ostruisce anche con mestiere, perché manca il guizzo e perché Cano rimedia ad un destro secco di Della Penna, unica vera conclusione per pareggiare. Finisce, allora, come non deve, tra i mugugni timidi della tifoseria. Intanto, la prestazione priva di coraggio fa riflettere e, soprattutto, provoca paure. Evidentemente, però, qualcosa è successo all’interno del gruppo: Giannini dovrebbe cominciare seriamente a preoccuparsi. Soprattutto perché il Gallipoli sembra una squadra che, sin qui, ha saputo occultare i limiti con l’organizzazione e la vivacità. Organizzazione e vivacità tramontate: esattamente prima del crollo verticale.

giovedì 4 marzo 2010

E nuovi appetiti circuiscono il Barletta

C’è un tempo per rabbuiarsi e uno per rialimentare voglie sopite. E, spesso, le situazioni si intercambiano. Soprattutto in un campionato come quello di C2, che sa puntualmente alterare condizioni e prospettive di ogni concorrente: dato puramente oggettivo, dettato dal precario divario che separa le più forti dalle più deboli. Dove, più di ogni altra cosa, contano le motivazioni, ma anche l’atteggiamento e la tenuta psico-fisica. E dove un momento storico non è mai uguale all’altro. Prendete il Barletta: guardava in basso e poi, all’improvviso, si ritrovò a sbirciare nei quartieri più aristocratici. Finendo per illudersi e disilludersi: abbastanza logicamente, aggiungiamo. Confermando le sensazioni di Sciannimanico, che provava a spegnere gli ardori dell’ambiente, e a raffreddare i sentimenti della tifoseria. Progressivamente allontanatasi dal Puttilli. Adesso, però, il Barletta sembra aver recuperato energie. E due affermazioni di fila (di fronte alla Scafatese, in casa, e poi in trasferta, a Isola del Liri) riaccrescono gli appetiti della piazza. Del resto, la zona playoff non è, obbiettivamente, eccessivamente lontana. E qualcuno, lì davanti, attraversa giorni difficili (il Gela, ad esempio). Oppure, potrebbe attraversarli: non si sa mai. Ma il discorso regge sino ad un certo punto. Perché pensiamo che il concetto speso nel recente passato del tecnico («non abbiamo la caratura per competere, accontentiamoci di quello che è stato costruito sin qui»), oltre che condivisibile, sia tuttora attuale. Non è cambiato molto, da allora. Ed è ancora difficile inventarsi qualcosa. Anche la società, peraltro, appare sintonizzata su questa lunghezze d’onda: anche se provarci non è mai un peccato. Non vorremmo, però, che le speranze ritrovate possano generare nuove pretese e, dunque, ulteriori delusioni e successivi malumori. Proprio adesso che il Barletta, fortificando l’organico societario, sta pianificando il futuro, senza correre. Confidando, ovviamente, sulla spinta robusta della gente: particolare sul quale non tutti i club di quarta serie possono contare. E patrimonio, oggi, da non disperdere in una rincorsa al buio che non possiede una piattaforma affidabile.

mercoledì 3 marzo 2010

Il derby, pietra miliare del Taranto

Gli accadimenti modificano gli obiettivi. E, spesso, moderano la verve dialettica. Il presidente del Taranto D’Addario, per esempio, torna da Giulianova visibilmente deluso e accantona i progetti di promozione diretta. Cominciando a guardare in direzione di un traguardo più credibile: i playoff. Traguardo ugualmente impegnativo che, però, la formazione di Dellisanti non ha ancora ancorato. E dal quale, anzi, si è idealmente allontanata, dopo il già abbastanza criticato zero a zero ottenuto in Abruzzo. Zero a zero privato, va detto, di sensazioni confortanti e di brillantezza di manovra: perché il Taranto – pur conservando l’imbattibilità dell’attuale gestione tecnica e l’impermeabilità difensiva per altri novanta minuti – si fa asfissiare dalla vitalità e dal podismo dell’avversario, ammettendo il calo e appellandosi anche alle dimensioni ridotte del terreno di gioco. Ma smascherando pure le proprie carenze espressive e propositive e cadendo nel tranello del Giulianova, che porta il match sui binari preferiti, dove il ritmo e la corsa attutiscono il divario tecnico. Per capirci: il Taranto prosegue la corsa con pieno diritto (tredici punti nel girone di ritorno, nove nelle ultime cinque gare: non un dato indimenticabile, ma neppure cattivo), eppure si scopre più vulnerabile. O meglio, meno quadrato di quello che pensava di essere diventato. Problema amplicato, peraltro, dalla viscerale (e proverbiale) umoralità dell’ambiente e dall’urgenza che anima il vertice societario. Che continua a produrre pressioni e, dunque, potenziali tensioni. Materia che Dellisanti storicamente patisce e che, come sempre accade, finisce per attanagliare chi scende in campo. Di più: certe analisi e certe dichiarazioni («chi non crede al progetto, scenda dalla nave») indeboliscono la consapevolezza del gruppo e, soprattutto, la posizione dell’allenatore. Partito con il conforto della simpatia popolare e, adesso, già costretto a misurarsi con la rudezza del risultato: il prossimo, quello che scaturirà dal derby con il Foggia, allo Iacovone. Strano, ma vero: malgrado tutte le smentite che si inseguiranno, com’è giusto che avvenga.

martedì 2 marzo 2010

Sull'orlo di una crisi di nervi

L’ultima prestazione del Foggia è l’ufficializzazione di un disastro. Tecnico e psicologico. La sconfitta (questa volta gode il Cosenza, praticamente obbligato a passare allo Zaccheria) certifica l’eventualità più temuta, ovvero la condanna ad una sofferenza molto peggiore del previsto: perché scansare l’ultimo posto, da domenica, sembra già un’impresa da inseguire. Funziona pochissimo, quasi niente: la squadra di Ugolottisi si sbriciola combattendo appena, si arena nella sua stessa indecisione, si logora a vantaggio già acquisito. Aprendo le proprie porte ad un avversario dimesso e, probabilmente, neppure convinto di superare felicemente l’ostacolo. Il Foggia, cioè, si punisce da solo, confezionando il pareggio e, ovviamente, anche il sorpasso bruzio. Dietro i fotogrammi di un suicidio ineluttabile, imprecisioni individuali e cattivi movimenti collettivi. Come dire: il problema, adesso, è nelle maglie dell’ingranaggio, è nella testa del gruppo. Poi arriva anche il peggio: perché non c’è ribellione, non esiste reazione. E la quarta battuta d’arresto di fila, prima del derby di Taranto che si sta avvicinando, si fa sentire. Anche nelle parole del trainer, a match appena concluso. Perché, se Ugolotti serve ai microfoni nomi e cognomi da crocifiggere, è un cattivo segno. Non siamo, magari, alle dichiarazioni guerra. Ma sull’orlo di una crisi di fiducia e nervi, forse, sì.

lunedì 1 marzo 2010

Grottaglie, questa volta la porta è salva

Il Grottaglie è quella timidezza di fondo che ne intralcia puntualmente le operazioni d’offesa. E la Casertana, avversario di turno, non possiede troppa intraprendenza: per quarantacinque minuti (i primi), almeno. Anche e soprattutto per questo il calcio ristagna e il campo racconta poco. Perché manca il ritmo, lo spunto, la giocata, il cambio di passo: da una parte e dall’altra. La manovra della formazione di Maiuri sembra persino ordinata, ma è tenera. Troppo tenera. E non incide. Perché sprovvista di identità. Arginarla, perciò, è abbastanza agevole. Peraltro, non sembra un match che può sbloccarsi: anche se, a ripresa partita, i campani – più vivaci e, infine, convinti di poter vincere la sfida - si fanno preferire. Così, infatti, sarà. Anzi, dopo l’intervallo il Grottaglie si inaridisce ancora di più. E appare svuotato. Resta, così, un punto. E, con il punto, la soddisfazione di non aver sofferto, in casa, neanche l’onta del gol. Non accadeva da mesi interi. Ed è, in questo momento, tanta roba. Come tanta roba è il vantaggio accumulato sul Bitonto, cioè sulla soglia della paura. Prendiamola così: anche se gli atteggiamenti dell’Ars et Labor continuano ad allarmare. Sinceramente.