venerdì 20 dicembre 2013

Lecce, operazione aggancio riuscita



Aggancio riuscito. E rincorsa (al quartiere playoff) conclusa. E’ bastato aggrapparsi alla puntualità dei risultati, senza strafare. Cioè, acquisire solidità di gruppo E viaggiare sul binario dell’umiltà. Poi, gli avversari (tutti, praticamente) hanno agevolato il compito: in terza serie, quest’anno, è dura per chiunque. E neppure gli organici corazzati di Salernitana, Benevento, L’Aquila, Pisa e altre ancora passeggiano senza incontrare problemi. Anzi. Il Lecce, così, vincendo il recupero infrasettimanale di Nocera continua a scalare la classifica. Malgrado il disastro di inizio stagione, la formazone di Lerda, adesso, è quarta. Lontana dalla prima piazza (sette punti e, per ora, non è neppure il caso di pensarci, oggettivamente), ma assolutamente nel vivo della competizione per il secondo posto disponibile in ottica serie B. Da non credere. Due successi in quattro giorni rilanciano le quotazioni, aprono orizzonti nuovi, liberano la fantasia. Ma, soprattutto, spazzano quella cappa di cattivo umore che non ha mai abbandonato la squadra sin dall’avvio del torneo. In Campania, mercoledì, ci pensa Bogliacino a sbloccare lo score, prima che arrivi l’intervallo, dagli undici metri (è questa la svolta: anche perché la Nocerina rimane contestualmente in dieci): quindi, tutto diventa più semplice. Ma il Lecce, al di là degli episodi, sfrutta un momento di maggiore serenità e i propri valori tecnici, superiori alla media del campionato. Che, seppure in ritardo, si sforzano di emergere. Contando, da qui in poi, anche su un altro requisito, da non sottovalutare. La continuità, appunto: che, in questo momento solo la capolista Perugia e – in parte – il Catanzaro possono ugualmente vantare. Una dote da sfruttare, prima che la riapertura del mercato favorisca una ridefinizione delle forze nello scacchiere del torneo.

mercoledì 18 dicembre 2013

Bisceglie, meglio adesso



Il secondo segmento di mercato rimodella la serie D, praticamente ad ogni latitudine, e stravolge gran parte delle protagoniste di Puglia. Ma c’è un dato, soprattutto, che colpisce e lascia riflettere: i club tagliano molti big, riducono le spese d’ingaggio, puntano sul concetto di completezza dell’organico e cominciano a preferire la sostanza alla forma. Seppure in ritardo, cioè, le società scoprono (o riconoscono) un’antica verità: ogni campionato necessita dei giocatori più adatti a quel tipo di palcoscenico. Traducendo, gli elementi di categoria offrono, alla lunga, maggiori garanzie. Ancora: sono pochissime le operazioni da urlo (ricordiamo, nel girone H, quella di Picci, transitato dalla C di Barletta al Matera: per il resto, niente di speciale). Non solo: la capolista Marcianise, ad esempio, non si muove o quasi. Tra lo Jonio e l’Adriatico, invece, il Monopoli rivoluziona il look, reinventando la difesa. Il San Severo cambia pelle. Il Grottaglie, teoricamente, si irrobustisce. Il Brindisi si libera di qualche impegno oneroso e, però, mantiene il suo miglior realizzatore, il ricercatissimo Gambino. Il Manfredonia perde qualcosa (Arigò e Lacarra, ad esempio) e prova a rimediare. Mentre il Taranto, senza grandi capitali da investire, assiste, recuperando un solo under (Picascia, ex Foggia). Infine, il Bisceglie. Che – potremmo sbagliarci, ma anche no – si giova più di tutti delle transazioni dicembrine. Innanzi tutto, il presidente Canonico dimentica le intemperanze recenti della tifoseria e dribbla le angosce dell’ambiente, sconfessando nuovamente i propositi di abbandono. Resta al timone, pur senza rilanciare. Cogliendo, tuttavia, l’occasione per pulire l’organico di molti elementi poco propedeutici al progetto. Va via, in sintesi, un po’ di gente dal curriculum importante. Ma, di contro, arrivano ricambi più spendibili, più affamati. E anche economicamente più sostenibili. Non a caso, la prima (proprio domenica passata, a Grottaglie) è assolutamente positiva: successo netto e pesante. Sgomitava, soltanto pochi giorni fa, l’ipotesi di un tracollo tecnico, il rischio di una retrocessione annunciata. Scommettiamo, invece, che la salvezza è assai più vicina adesso di un mese fa?    

martedì 17 dicembre 2013

Due storie inversamente proporzionali



Il Brindisi perde male – molto male – anche sul campo del San Severo (non è una novità, per la formazione di Totò Ciullo, sfigurare di fronte a formazioni teoricamente niente affatto trascendentali) e, nell’ambiente, sgomita la sensazione che qualcuno, all’interno dell’organico, abbia volentieri sperato nell’insuccesso con scarso decoro per poter contare, immediatamente dopo, sullo svincolo. E, di conseguenza, sul trasferimento, proprio in dirittura d’arrivo della seconda sessione di calciomercato. Non ne fa mistero, del resto, neppure il presidente Flora: che abbandona gli spalti del neutro di Lucera prima del novantesimo, precisando con rabbia che nessuno lascerà Brindisi. E che, anzi, la squadra verrà potenziata ulteriormente. Al di là degli episodi e di certe oscure pieghe, sull’Adriatico sta accadendo qualcosa. La squadra si è inabissata in una certa mediocrità di fondo e, soprattutto, le operazioni di mercato sembrano aver corroso – più del previsto, più del normale – la quotidianità del club. Mentre, sullo sfondo, passano determinate immagini già viste negli studi televisivi di un’emittente locale e le polemiche, ancora recenti, consumate tra lo stesso Flora e il direttore generale Carbonella, tra il presidente e un procuratore assai vicino (un tempo, almeno) alle scrivanie di via Brin. Tanto per capirci, proprio mentre scriviamo, sembra dissolversi anche la pace temporanea tra i due massimi dirigenti brindisini: condizione che porterebbe, questa volta definitivamente, il diggì lontano dal Brindisi che sarà. Epilogo inevitabile, ma – probabilmente – anche opportuno: se la situazione si è incancrenita, meglio recidere il rapporto. Sarà meglio per tutti. In queste ore, intanto, la società potrebbe rafforzare l’elenco a disposizione del trainer (con Marinucci Palermo? Con altri nomi?), zittendo ulteriori illazioni e nuovi sospetti. E, magari, provare a rimarginare in fretta la ferita di Lucera: che rimane, però, profonda. Anche perché patita in casa di un San Severo decimato dalle ultime evoluzioni di mercato e, perciò, scarsamente accreditato. Un San Severo liberatosi di molti fedelissimi del tecnico Rufini (che, comunque, continua – almeno ufficialmente – a sposare la filosofia societaria) e rimodellato attorno ad interpreti meno considerati, ma evidentemente dotati di maggior appetito e di stimoli superiori. Proprio due ingredienti che, attualmente, fanno difetto al Brindisi. Due storie distinte e inversamente proporzionali: questa riapertura del mercato rischia di terremotare il campionato. O di condizionarlo, chissà per quanto. Davanti e indietro.

lunedì 16 dicembre 2013

Nuovo Monopoli, vecchio trend

Calcio discontinuo e profitto limitato, se comparato alle attese. Il Monopoli, così, a dicembre si reinventa, approfittando della seconda sessione di mercato. E sconfessando larga, larghissima parte delle scelte estive: Di Rito, De Toma, Vetrugno e Adeshokan, sull’Adriatico solo per quattro mesi, trovano altre sistemazioni e nuovi stimoli tra la serie D e l’Eccellenza. Se ne va anche Strambelli, uno dei big un tempo (neanche troppo lontano) molto amati e, ultimamente, particolarmente criticato (e contestato) dalla parte più intransigente della piazza. La società, cioè, coniuga in una mossa unica l’esigenza di liberarsi di qualche ingaggio pesante e la prospettiva di recuperare qualche pedina più affidabile per i sistemi di gioco ideati da coach De Luca. Non senza qualche difficoltà, arrivano dunque un difensore esperto come Esposito, una punta di peso come Pedalino, un’alternativa come Aprile e, infine, un ulteriore rinforzo in terza linea (Castaldo). Tra il pericolo di un incidente diplomatico con Leo Vinci (direttore sportivo attualmente senza vincoli, contattato dal presidente Mastronardi, ma bloccato dalle altre anime societarie) e una certa preoccupazione popolare. Ancora in bilico tra il vecchio e il nuovo corso, però, la squadra si presenta (è storia della settimana passata) sul campo della capolista Marcianise, ritagliandosi una prestazione di personalità, salda e solida, e intascando un punto pregiatissimo. E, oltre tutto, rispondendo indirettamente alle accuse di smobilitazione che la tifoseria ha appena riversato sulla società. Ma, sette giorni dopo, tornando ad operare sull’erba di casa, il Monopoli frena un’altra volta, di fronte al rinnovato e abbottonato Real Metapontino. C’è ancora un po’ di ruggine, nell’ingranaggio. E mancano il sacro furore, l’atteggiamento della squadra consapevole della propria forza.. Soprattutto, però, il 3-5-2 di partenza non si sviluppa, non alza i toni, non intensifica il ritmo, difettando in dinamismo e agilità. La squadra è lenta e i lucani si portano in vantaggio in due occasioni. Lanzillotta a parte, il Monopoli appare bloccato, imbalsamato. Laboragine, a cui adesso è ufficialmente delegato il compito di creare, non si accende. Il nuovo terminale offensivo, Pedalino, è ancora un po’ estraneo alla manovra (e non esclusivamente per amnesie proprie). Lo stesso Pinto rinuncia spesso alla sua progressione possente. E, se non fosse per il colpo di testa risolutore di Montaldi, a recupero quasi consumato, parleremmo di un rovescio amaro e scomodo. Il collettivo, è chiaro, si sta ancora cercando, senza trovarsi per due partite di fila. E, nel frattempo, sembra aver perso i contatti dalle prime della classe. Certo, i nove punti che distano dalla vetta sono tecnicamente ancora colmabili, se ricordiamo che il leader Marcianise deve ancora riposare, proprio domenica prossima (diciamo pure che, virtualmente, sono sei) e un nuovo torneo si sta ufficialmente aprendo, come sempre accade al termine della prima manche della stagione: ma, probabilmente, questo è anche il momento di cominciare ad osare qualcosa in più, pur salvaguardando gli equilibri fondamentali. E di spendere una dose in più di coraggio.

domenica 15 dicembre 2013

Bari, mezzo passo falso



Alberti e Zavettieri superano qualche problema di formazione. Ma il Bari non si libera dal Carpi. Raggiungendo, anzi, il risultato minimo solo in prossimità del fotofinish. Dopo aver condotto il match per un po’. Ed essere passato in vantaggio, legittimamente. Eppure, globalmente, la prestazione non fortifica il morale del gruppo e della tifoseria. Aprendo, per qualche ora, il dibattito sulla posizione dei tecnici, minacciati da un esonero che, comunque, non si concretizza. E dire che il match sembra ammiccare, da sùbito. Il Bari, è vero, non forza, non alza il ritmi. Ma tiene palla, premendo con discrezione: e, sostanzialmente, fa la partita. L’avversario è fragile e non filtra: sembra poco convinto e persino poco dinamico. Galano, di contro, è ispirato. Fedato si accoda. Il 4-2-3-1 e qualche accelerazione bastano a creare i presupposti giusti che permettono a Ceppitelli di colpire. Uno a zero, il compito appare facile. Così non è, invece. Gli emiliani si svegliano, si consolidano in mezzo al campo, conquistano la superiorità nella zona nevralgica e cominciano ad aggredire, guadagnando metri e occupando più spazi. Il nigeriano Mbakogu, un po’ di tecnica e molti doti atletiche, s’inventa il pareggio e cambia le sorti del match. Che inverte il suo corso nella ripresa, quando lo stesso Mbakogu escogita la maniera per raddoppiare. Il Bari si concede al 4-3-3, poi – con l’apporto di João Silva - al 4-4-2, quindi al 4-2-4: ma vengono a mancare la continuità e la brillantezza. Marotta e soci rincorrono senza trovarsi. Sciaudone si perde un po’ e difetta pure la fantasia. Brilla solo Sabelli, che a destra si propone con continuità e personalità. Resta la disperazione, oppure l’orgoglio: a cui, infine, la squadra si aggrappa, riuscendo a rimediare almeno un punto. Che non è molto, ma che tuttavia basta a non deprimersi. E, probabilmente, a salvare i condottieri, peraltro già sonoramente scaricati dalla curva più calda a gara ancora in corso. Però, è bene sottolinearlo, il Bari non rinuncia mai a mettere la palla a terra, anche nei momenti meno fecondi. Pagando (troppo) certe pause e determinati cali di tensione. Come in passato. Si tratta, evidentemente, di un limite congenito, che la bassa età media del gruppo contribuisce a spiegare. Ma non ad assolvere. Mentre la classifica non migliora: reclamando, semmai, un pizzico di esperienza. Angelozzi, se potrà operare nelle prossime due settimane, ormai dovrebbe sapere  in che direzione rivolgersi.  

giovedì 12 dicembre 2013

Taranto, serve ridimensionare il progetto?


Questa volta si gioca, normalmente. Niente pioggia scrosciante, niente freddo pungente: il Taranto recupera di mercoledì il match di Francavilla sul Sinni, rinviato l’altra domenica. E trova un pareggio non eccessivamente ammiccante, che tiene – magari – la squadra ancora sulla scia del pratico, rapido e ben organizzato Marcianise, sempre più capolista (con merito) del girone appulocampano di D. Quel Marcianise che, peraltro, proprio domenica scende allo Iacovone (dove, uscendo indenne, potrebbe ipotecare la promozione: fatti, non fantascienza). La formazione di Papagni si ritrova sotto, pareggia e ribalta lo score, quindi si fa raggiungere: ma, al di là dei dettagli statistici, dopo un periodo promettente, quella di Papagni non sembra ancora la squadra sicura di sé e proprietaria insindacabile del proprio destino che tutti gradirebbero applaudire. Rischia poco, cioè: ottenendo il minimo indispensabile. Così com’è, diciamolo tranquillamente, non può ambire a molto di più del terzo o del secondo posto finale. Il coach, è vero, è costretto a rinunciare agli attaccanti migliori. E, in fase difensiva, continua a soffocare (le esitazioni, ormai, sono sistematicamente imbarazzanti). Ciarcià, ispiratore designato dall’urgenza, fallisce la prova, sostanzialmente: spiegando, una volta per tutte, che l’ingaggio di un catalizzatore di gioco è esiziale. Ma, in realtà, la seconda sessione di mercato non decolla. Per ora, solo movimenti in uscita. E c’è un motivo, sottolineato – del resto – dagli sviluppi dell’ultimo confronto societario: il club, come confessa candidamente il presidente Nardoni, ha capito di aver fatto affidamento su entrate inesistenti, di fatto. La situazione è più complicata del previsto: come certi segreti sussurrati qua e là avevano, sin dalla fine dell’estate. già abbondantemente lasciato intendere. Nessun problema, però. In questo caso, è sufficiente abbozzare un passo indietro e moderare gli appetiti. Se il Taranto non può competere per la serie C, che venga detto chiaramente. Definitivamente. La gente capirà. O se ne farà una ragione. I programmi possono pure cambiare, a lavori in corso. Non è una vergogna. Per nessuno. Nemmeno per una piazza di prestigio antico: che deve preferire la continuità al sogno folle.   

martedì 10 dicembre 2013

Il Martina non c'è. E, ora, il mercato



Due trasferte redditizie (quattro punti in due gare, nello spazio di sette giorni) possono persino non significare niente. O meglio: gli effetti sulla classifica, in qualche maniera, resistono: ma quelli sulla psiche di gruppo e sulla qualità di calcio possono addirittura evaporare in fretta. Se ne accorge il Martina. Se ne accorge la gente che tifa. E dobbiamo augurarci che se ne accorga anche la società. Il successo di Sorrento e il successivo pari di Aversa, probabilmente, avranno illuso la squadra, attenuato la tensione, liquidato la concentrazione, colmato l’appetito. Privando la formazione di Bocchini, sulle zolle di casa, davanti al Chieti, dell’energia - fisica e mentale - che serve ogni domenica per ambire ad un traguardo ancora troppo lontano, la permanenza tra i professionisti. Tornando a casa, cioè, Martina si ritrova senza ritmo, senza voglia, senza coraggio. Svuotato. L’avversario è oggettivamente modesto: fa appena quanto la situazione gli chiede e intasca tutti i punti a disposizione: legittimando, peraltro, il sigillo decisivo di un ex, Mangiacasale. Ma Leuci e soci sono assolutamente inguardabili. Timidi, inconsistenti, inadeguati. E’ la verità: anche se dispiace dirlo. Non è, quello che viviamo, un campionato di grande spessore. E, proprio per questo, è necessario tentare, sempre. Ed è obbligatorio provare a fare il match, almeno di fronte al pubblico amico. Del resto, in una stagione anomala come questa, tanti pareggi (quando arrivano) non possono e non potranno bastare. Ma il Martina si estranea dalla battaglia, dalla partita. Non regge neppure il paragone con un allenamento infrasettimanale: là c’è più agonismo, garantito. Il 5-3-2 (sì, in fase di possesso dovremmo parlare di 3-4-3, ma è proprio il possesso di palla che manca) preparato dal tecnico si assenta da sùbito: ma non è un inconveniente di natura tattica. E’, piuttosto, una questione di approccio. O, peggio, di mentalità. Anche Petrilli è svagato oltre il consentito: difficile, allora, pretendere qualcosa da una squadra che, praticamente, arriva ad una vera conclusione solo in prossimità del novantesimo. E mai prima. Gli ultimi dieci minuti di leggero forcing non cancellano gli imbarazzi degli altri ottanta. E non c’è troppo da aggiungere. Se non che, ormai, è tempo di rimediare: con qualche rinforzo di personalità, magari anche di esperienza. Serve gente che sappia trascinare il gruppo, ecco. Che possieda intraprendenza, decisione, grinta. Le mezze figure non risolveranno nessun problema. Con o senza Bocchini: che parte della tifoseria, evidentemente, continua intimamente a non amare troppo. E che, invece, continueremo a difendere: almeno sino a quando il roster rimarrà quello che attualmente è. Dopo avergli chiesto, perché no, di dotare al Martina più aggressività. E più rabbia. Ce n’è bisogno, al di là del livello tecnico degli interpreti.



lunedì 9 dicembre 2013

Bisceglie e Ostuni, la provincia si sveglia

Il presidente Canonico, appena cinque giorni fa, puniva l’irrazionale e vendicativa irruzione della frangia più calda della tifoseria biscegliese, azzerando il piano di rilancio della squadra e, sostanzialmente, firmando il proprio disimpegno. E ieri, ad Ostuni, un altro presidente (Luca Marzio) ha praticamente sgomberato parte della tribuna, delegittimando la presenza degli ultras. Colpevoli di aver lanciato in campo materiale pirotecnico e, soprattutto, di aver stordito – senza successive conseguenze, peraltro – un assistente di linea, durante il match tra la formazione di casa e il Galatina (campionato di Eccellenza). Sembra che - timidamente, lentamente - il pallone di casa nostra  e, principalmente, i suoi gestori comincino a svegliarsi, a ribellarsi ad un certo trend. Sono piccoli segnali, ma indicativi. Che rallegrano non poco. Se certe turbolenze si affacciano pure in provincia, è proprio la periferia dell’impero a mobilitarsi: con misure concrete. Sembra una traccia, un messaggio. E sono misure che meritano un sostegno, anche e soprattutto da parte delle istituzioni: morale e, innanzi tutto, pratico. Se, poi, è proprio la Puglia a dettare una determinata linea, ben venga. Sperando che i fatti di Bisceglie e di Ostuni non si rivelino solo una semplice coincidenza. Intanto, dove non arrivano le restrizioni, i tesseramenti, i prefiltraggi e tutto il resto, emerge il buon senso. L’ultima stampella a cui ci è concesso aggrapparci.   

giovedì 5 dicembre 2013

Bisceglie, dalla rifondazione al disimpegno



Il Bisceglie zoppica ancora. E, pur tranquillizzando la sua gente per soli sette giorni (pari a Torre del Greco, con onore e rimpianti), torna sùbito a sbandare. Consigliando il patron Canonico a riconsiderare l’idea di investire: sul mercato di riparazione, è ovvio. Tanto che il ventaglio delle possibilità si allarga progressivamente: cominciano, così,  a circolare nomi suggestivi, rinforzi preziosi. L’ultima performance, però, si trascina imbarazzi inimmaginati: la caduta, nella nebbia di Lucera, in casa del San Severo, è rovinosa. E la manovra improponibile. Ma c’è di più, purtroppo: la tifoseria, stressata, non accetta spiegazioni. E insorge, veemente. Al rientro dall’ultima trasferta, la squadra è accerchiata, sbeffeggiata, insultata. Nell’assalto, non solo verbale, maturano spintoni, forse anche schiaffi. Qualche effettivo dell’organico, colpito, comunica di voler cambiare residenza calcistica, immediatamente. E, allora, già sufficientemente provato dall’esperienza sull’Adriatico, ovvero pentito di una scelta rinnegata anche nel corso della stagione sportiva passata, il presidente interviene con chiarezza. Duramente. Stop alla campagna di rafforzamento, innanzi tutto: Strambelli, dunque, si muove da Monopoli, ma si sistema ad Andria, in Eccellenza. E lo stesso fa Di Rito, il miglior realizzatore del campionato scorso, proprio a Bisceglie. Via i pezzi più interessanti (Titone, ad esempio, si sistema a Matera). E, ovviamente, nuove dimissioni. Irrevocabili: come qualche mese fa, è vero. Ma, questa volta, più pericolose. Più credibili. Il Bisceglie, all’improvviso, si ritrova senza sovvenzioni. Senza guida. Con un titolo teoricamente in vendita. Senza un organico competitivo. E con la prospettiva di dover affrontare il resto del torneo con la formazione Juniores. Anche e soprattutto perché altri emigreranno, da qui sino al diciassette dicembre, data di chiusura della seconda sessione di calciomercato. Eppure, non ci sentiamo di censurare l’operazione di Canonico. Niente affatto. Anzi, ci sembra una buona idea. Anche se coincide con il fallimento ufficiale di un progetto e anche se dovesse accompagnare lo stato d’agonia di un club storico, titolato. E’ una buona idea perché non si può e non si deve, sempre e comunque, fingere di non vedere e di non capire. Perché, a queste condizioni, non regge il sacrificio di uno o più imprenditori: al netto degli errori e di tutto il resto. Perché è il momento di cominciare a tracciare una linea, in fondo alla pagina. E di calcolare controindicazioni e benefici di ciascuna avventura calcistica. E perché le illusioni (e, eventualmente, le disillusioni) non devono sistematicamente spingerci nel fango di un tifo miope o, peggio, illegale. Del problema specifico, altrove, se ne parla, anche troppo: e fioccano messaggi privi di soluzione. Quello di Canonico, invece, è un segnale concreto: sempre che la decisione venga confermata, come sembra. Un segnale che presuppone un’azione precisa. Che va condivisa. Seppur con dolore.

lunedì 2 dicembre 2013

Se Gambino non segna



Nella domenica del diluvio si fermano forzatamente il Taranto e il Francavilla, il Matera e il Marcianise: infiacchendo l’irriverenza (e la bellezza) del calendario, che avrebbe voluto contrapporre quattro delle prime sei concorrenti del girone appulocampano di serie D. A Brindisi, tuttavia, si gioca. Anche se il terreno è ovviamente pesante. C’è la Turris: e il fascino di una sfida importante, malgrado l’afflosciamento temporaneo delle prospettive dei campani, peraltro rimaneggiati in prossimità della rivoluzione tecnica di metà stagione, si sente tutto. Anche per questo, la gente di Ciullo e la formazione di Pensabene, coach all’esordio, faticano a ragionare. La Turris è contratta, preoccupata: e, a lavori in corso, preferisce badare alla quantità. Tralasciando decisamente la qualità della manovra. Il Brindisi, di contro, è nervoso. E si esprime con lanci lunghi. Le condizioni del campo incidono, evidentemente: ma difetta la fluidità di altre occasioni. Con il tempo, però, le cose migliori sono degli adriatici, che ampliano la supremazia territoriale e rafforzano la pressione. Ma Gambino, al rientro dopo tre turni di squalifica, non è irreprensibile. La sosta, probabilmente, lo ha arrugginito: oltre tutto, l’estremo torrese Liccardo gli si oppone dagli undici metri, ad inizio della ripresa. Dopo il penalty fallito c’è solo il Brindisi: la Turris si difende soltanto. Pellecchia coglie il palo, però a De Martino e soci difetta la marcia in più, il guizzo. Il pari senza marcature, alla fine, trattiene il Brindisi: senza rilanciare i campani. Dalla sfida, infine, fioccano altre indicazioni. La più vistosa: malgrado il Brindisi abbia terminato il match con tre punte di peso (Gambino, Tedesco e Albano), la fase di possesso non si è finalizzata. E’ mancato il gol. Cioè, è mancato Gambino. Che i compagni di squadra non sempre possono sostituire.    

lunedì 25 novembre 2013

Dieci risultati di fila e il Foggia emerge


E’ da dieci turni che il Foggia realizza il risultato, in casa e fuori. E due mesi e mezzo senza sconfitte si traducono, in classifica, con un terzo posto appena scalato. La continuità, in questo campionato di C2, premia per forza. Spingendo la gente di Padalino a confidare seriamente nel conseguimento di quel passaporto utile ad accedere in terza serie unica. Anche se la situazione di work in progress stagnerà a lungo (e il discorso vale per chiunque). Tanto che nessuna concorrente, con il regolamento attuale, potrà vivere serenamente sino a maggio. Oltre tutto, il campionato non ci sta regalando troppe realtà inattaccabili: e, davanti ad un grande equilibrio di fondo, è sempre possibile tutto e il suo contrario. Non è consigliabile illudersi, ovvio: ma, intanto, il Foggia è competitivo. Tra lacune e amnesie: ma competitivo. Quanto basta per giocarsi tutte le proprie chance. E per scegliersi da solo il proprio destino. Nel frattempo, è pure auspicabile che Giglio e compagni provino, magari, a migliorarsi (la squadra soffre ancora di cali di tensione fastidiosi e, spesso, difetta nelle operazioni di gestione del vantaggio o della gara) e a pretendere sempre più da se stessi. Per il momento, però, il passo più sicuro e la regolarità sulla strada del gol sembrano supportare agevolmente il progetto a cui il club non rinuncerebbe per alcun motivo, ovvero l’inserimento tra le prime otto del torneo. Malgrado, proprio come ieri, il tecnico abbia dovuto rivedere qualcosa, anche tatticamente, a causa di diversi indisponibili (mezza difesa era out). Il 4-3-3, cioè, non provoca smottamenti irrimediabili: al di là di qualche fibrillazione evidente e di un intervento risolutivo di Narciso (il Castel Rigone spreca l’occasione di pareggiare dagli undici metri, non dimentichiamolo). Ma, adesso, conta soltanto un dato: questa squadra, comparata a quella degli albori della stagione, sembra più tosta, più convinta, più rodata: e, se i suoi singoli più esperti e rappresentativi disciplineranno il proprio rendimento, il traguardo diventerà oggettivamente abbordabile. Pochissime eccezioni a parte, in giro non c’è molto di meglio.

giovedì 21 novembre 2013

Il Brindisi e l'insufficienza dei ricambi

Il campionato non esclude gli appetiti del Brindisi e, anzi, continua a premiarlo con una classifica di vertice. Per niente scalfita da un paio di passi sbagliati (la squadra di Ciullo non sfigura davanti alle altre big, ma di fronte a concorrenti molto meno qualificate perde punti) e neppure da quei tre punti guadagnati sul Nardò e poi cancellati dal provvedimento di esclusione dei salentini dal torneo (intanto, però, il turno obbligatorio di riposo è già consumato). E anche la maxisqualifica del suo miglior realizzatore, Gambino, sembra non incidere: contro la Mariano Keller, ad esempio, torna alla marcatura Albano, rinforzo di lusso arrivato a stagione in corso. Per imporsi ugualmente, evidentemente, bastano le folate di Pellecchia, la freschezza di Fella, le geometrie di Marsili e la quantità di un gruppo che sa lavorare in silenzio. Ma, se le defezioni si assommano, alla lunga il problema nasce. In Coppa Italia, ad Agrigento, il Brindisi si arrende e abbandona il proposito di perseguire una strada alternativa per il professionismo. Ai quarti si qualifica l’Akragas, formazione solida e meno rattristata da infortuni e squalifiche. Gambino, questa volta, c’è. Mancano, però, Cacace, Sicignano e Pellecchia. E, in corso d’opera, Ciullo deve rinunciare a Bove, varando una linea difensiva assolutamente inedita e, probabilmente, inefficace. Nei primi venticinque minuti del match, i siciliani imbastiscono di più. Poi, il direttore di gara sorvola su un intervento scorretto in area agrigentina, dopo che un pallone interessante si è appena smorzato sulla traversa. Il ritmo non eccessivamente alto del match pare assecondare gli adriatici, ma i destini si compiono (amaramente) nella seconda parte della ripresa. Quando, appunto, il Brindisi sconta le insidie già conosciute e gli imprevisti di percorso. Riproponendo una controindicazione antica, che non era sfuggita agli osservatori più attenti e neppure su queste colonne: la disponibilità di pochi ricambi nuoce. Soprattutto, nel vivo delle competizioni. Non è fastidio da poco: malgrado l’euforia dei primi risultati abbia, per un certo periodo, accantonato la realtà in un angolo. La verità, però, sa riemergere all’improvviso: e con la realtà, adesso, occorre fare i conti. Il Brindisi, così, si trova davanti ad un bivio: un percorso porta a nuovi investimenti (sempre che il club disponga delle cifre che servono per continuare a competere), l’altro ad un ridimensionamento progressivo delle pretese.

martedì 19 novembre 2013

Monopoli, giù la maglia



La timidezza del primo tempo e l’imperizia della seconda parte del match condannano il Monopoli. E fruttano ai lucani del Francavilla un successo di prestigio e di sostanza. La gente di De Luca si ferma ancora, in trasferta: accade per la quarta vota in tre mesi. E non sono numeri che autorizzano a confidare così facilmente nella promozione tra i professionisti, ovviamente. Malgrado l’approccio alla partita si consumi con argomenti promettenti, l’aggressività evapora presto: e resta una squadra senza profondità, che si limita a controllare l’avversario, svolgendo il proprio compitino e niente più. Che si risveglia prima dell’intervallo. E poco prima della fine della gara. Troppo poco, Anche se il coach, davanti a block notes e microfoni, parla di un gran primo tempo della sua squadra (difendere il gruppo va bene, ma esagerare stona: decisamente). L’assenza dell’acciaccato Lanzillotta si fa sentire - e come - . E Di Rito, scartato dallo scacchiere di partenza, entra soltanto nella ripresa: la prestazione, forse anche per questo, resta lacunosa, innervata di esitazioni. In questo campionato, è vero, nessuno sfugge ai pericoli del percorso (pensate: le prime cinque della classifica, tutte assieme, hanno collezionato quattordici sconfitte in dodici giornate, e stiamo escludendo le tre cadute della Turris, che viaggia in sesta piazza), ma la tifoseria al sèguito di Laboragine e soci ci resta assai male. L’accusa popolare si concentra sul difetto di impegno, sulla mancanza di attaccamento alla maglia. A fine match, la contestazione (anche se la società dribbla il vocabolo) è decisa e chiassosa. E non passa affatto inosservata. Il gruppo è chiamato a svestirsi, a lasciare le maglie. Che vengono, per la cronaca, affidate alla società. Non requisite, per intenderci. E’, comunque, un gesto forte, netto. Antipatico, certo. Che ricorda quello, più noto e sviluppatosi in un contesto più composito, della torcida del Genoa (roba di un paio di stagioni addietro). E che scatena facili disamine sociologiche applicate al pallone, alcune anche pertinenti (il disagio e la rabbia degli ultras si fanno sempre più pressanti, non c’è che dire: e il calcio, anche per questo, ma non solo per questo, annaspa). Finendo per interessare anche la stampa nazionale e la televisione generalista. Che, però, finisce per accostare forzosamente i fatti di Francavilla con quelli (recenti) di Salerno, in realtà di più pesante natura. Anzi, per dirla proprio tutta, l’equazione indispettisce alquanto. Perché disinformata e tecnicamente sbagliata. Perché di qua c’è semplice contestazione e di là, in Campania, ci sono minacce (ancora da provare, per inciso) e progetti predefiniti nei dettagli. Perché da una parte c’è una partita mai nata e, da quell’altra, un match regolarmente giocato e malamente perso. Oltre ad un centinaio di dettagli differenti. Così, giusto per ricordarlo.

lunedì 18 novembre 2013

Il Grottaglie riparte e respira



Grottaglie-Real Metapontino, innanzi tutto, serve a capire che squadra trova – e che può cominciare a plasmare – Giacomo Pettinicchio, condottiero alla prima stagionale. Il trainer tarantino, intanto, possiede due motivi per confidare in un esordio il più morbido possibile: il calibro dell’avversario, assolutamente alla portata delle attuali possibilità tecniche dell’Ars et Labor, e l’inserimento del primo puntello di metà stagione (Prete arriva in settimana, firma e gioca dall’inizio). L’approccio, pur intriso di volontà, è però anche caotico. Il Grottaglie prova ad occupare spazi vitali, ma concede anche qualcosa: e pure il gol del lucano Pignatta, peraltro sùbito pareggiato da Formuso. Il match è denso, ruvido quanto basta, tecnicamente sporco: il Real, di certo, è una formazione più fisica, talvolta più pragmatica, sempre disposta a battagliare, abbastanza coperta (4-4-1-1). E, se càpita, a guadagnare minuti preziosi. Particolari che, allo stato pratico, si scontrano con l’esigenza di Anglani e soci, che resta quella di perseguire una trama e di inseguire la costruzione del gioco. Ma, come accade molte volte, è l’intuito del singolo che sblocca la questione. E l’uomo della partita si chiama Faccini: il ragazzo, a secondo tempo appena partito, si inventa una conclusione dal limite (è il sigillo del due a uno) e, sei minuti dopo, disegna la traiettoria liftata del gol dell’ipotetica tranquillità. Il Real, comunque, non smette mai di mordere: e il 4-2-3-1 reimpostato da Catalano genera la marcatura del tre a due: che fa sperare, ma che non basta. L’Ars et Labor, così, dopo settimane lunghe e arrugginite, riconosce il sapore del successo e, finalmente, respira. Rompendo, oltre tutto, il digiuno al D’Amuri (non aveva mai segnato, sin qui). Il lavoro che attende Pettinicchio, però, resta. Come galleggiano ancora alcune amnesie (dietro, una certa leggerezza negli atteggiamenti mette a rischio il risultato troppe volte, in prossimità del novantesimo), certe esitazioni e certi limiti strutturali dell’organico.

domenica 17 novembre 2013

Martina, avanti adagio



Tra i buoni propositi del Martina, c’è anche il varo di un sistema di gioco diverso, il 3-5-2. Nella pratica, un accadimento intempestivo modifica immediatamente il percorso del match, anticipato al sabato al pari degli altri: a cento secondi dall’avvio, il calcio franco battuto dall’antico Mora trova la deviazione decisiva in barriera. Ischia in vantaggio e jonici ancora più frastornati del previsto. La reazione è affaticata, debole. Le indisponibilità (Petrilli, De Lucia, Salvatori, Dispoto, Di Lauri) peggiorano la situazione. Le condizioni del terreno non la leniscono affatto. Mentre qualche presenza inattesa in tribuna (Rocchi e Gigli, oltre a Memolla: tutti teoricamente arruolabili) incuriosisce. L’avversario, intanto, si limita al compito più semplice e concreto: attendere e ripartire. Mostrando, tuttavia, maggior lucidità. Senza spessore di manovra, la formazione di Bocchini (squalificato: in panchina siede Cimmino) si cerca, ma non si trova. Prima dell’intervallo, comunque, l’intervento del direttore di gara (cartellino rosso per Austoni: è il prezzo di una gomitata che vede l’assistente di linea) sembra accondiscendente. Comunque, soccorre. L’ingresso di un centrocampista (Aperi) per un difensore (Nucera), allora, muta il profilo del Martina, adesso disegnato con un 4-4-2 appena più vivace. Che, nella seconda porzione di partita, coglie l’esigenza di amministrare - di più e meglio – il pallone: ma manca la brillantezza, lo spunto, l’idea. A Gai non difetta, però, la conclusione dalla distanza che regala il pari. La superiorità numerica di Belleri e compagni, tra l’altro, comincia a pesare nelle gambe isolane. Il Martina, a questo punto, da inseguitore si fa inseguito. E potrebbe infilarsi, in quattro occasioni, nelle amnesie campane, senza peraltro arrivarci (è, ancora una volta, un problema di qualità: dei singoli e del collettivo). Finisce come nessuno avrebbe sospettato: con un po’ di recriminazioni nel bagaglio. Ma un punto, al novantesimo, è esattamente quanto spetta ad una squadra a cui non basta il cuore e la quantità dell’ultimo quarto d’ora. Il periodo in cui, cioè, l’Ischia certifica una realtà che avevamo decodificato da un po’: anche questo torneo di C2, malgrado l’appetito di tante protagoniste e molti organici attrezzati, è sostanzialmente modesto. Quasi quanto i precedenti. Un particolare che suona, per il Martina, come una speranza in più. Da far brillare, magari, quando arriveranno i rinforzi (il presidente, davanti ai microfoni, ne promette addirittura quattro, senza minacciare tagli). Digrignare i denti per un mese e resistere: è questo il nuovo ordine da rispettare.

giovedì 14 novembre 2013

Grottaglie, un cambio previsto



Il destino di Alberto Bosco era ovviamente segnato, da settimane. L’esonero era slittato, almeno un paio di volte: per pudore (il rapporto tra il presidente del Grottaglie D’Amicis e il tecnico, per esempio, era e rimane ottimo), buon senso (in fondo, può essere duro per chiunque consegnare all’allenatore un organico limitato nel numero e nell’esperienza e poi pretendere risultati copiosi), ristrettezze economiche (il nuovo arrivo sulla panca possiede pur sempre un costo ed è pure naturale che pretenda garanzie, cioè puntelli tecnici) e per il peso specifico della speranza, che accomuna gli uomini di buona volontà (la speranza di invertire un trend decisamente negativo e recuperare la strada per la permanenza in D). Però, le sconfitte si inseguono senza soluzione di continuità da troppo tempo. E l’ultima caduta, oltre tutto, è immediatamente apparsa rovinosa (sei a zero: sul campo della capolista Marcianise e con un uomo in meno per una larga parte di match, è vero; ma pur sempre di sei a zero si tratta). Di più: l’Ars et Labor, da almeno un mese, sembra aver imboccato il cammino triste dell’involuzione acuta, sotto il profilo degli atteggiamenti e della gestione dei novanta minuti: al di là del pessimo trattamento infertole dal calendario, che negli ultimi tempi ha riservato solo avversari di alta e altissima classifica. Bosco, dunque, questa volta non se l’è sfangata. Tanti ringraziamenti e un foglio di via: che la gente, oggettivamente, attendeva (non è poi sempre impossibile intuire il futuro prossimo). E via, verso un capitolo nuovo. Che si concentra attorno alla figura del nuovo coach, il tarantino Giacomo Pettinicchio: che, proprio dal Taranto, in estate, si è sentito profondamente tradito. Persona squisita e garbata: che, ormai, ha accumulato tutta l’esperienza che gli serve per provare a salvare il Grottaglie. Ma non ha accettato sùbito, Pettinicchio. Preferendo pensarci, prima. O, meglio, preferendo riscuotere innanzi tutto la promessa di ricorrere prontamente al mercato di riparazione che si sta aprendo. Anzi, il club gli ha già garantito un nuovo ingaggio, quello dello svincolato Prete: a Taranto con il trainer fino a pochi mesi addietro (il plotone dei fuoriusciti da quella formazione, quindi, si allarga). E un altro regalo potrebbe aggiungersi a breve (Fumai, condizioni fisiche permettendo). A questo, punto, magari, Bosco si starà già chiedendo come e perché i fondi siano improvvisamente spuntati all’orizzonte di un club tuttora in difficoltà. Ma è anche abbastanza noto che l’Ars et Labor si sarebbe comunque riattrezzata, a metà stagione: con o senza il vecchio condottiero. In fondo, però, il primo comandante della stagione ci sarà rimasto sufficientemente male: tanto che, elogiando il solo presidente, prima del commiato ha volutamente ignorato gli altri componenti del gruppo di comando. E, di sicuro, Pettinicchio è in grado di raddrizzare la questione, anche con pochi aggiustamenti (mirati, possibilmente). Intanto, la richiesta (quella formale, almeno) è abbastanza semplice: tornare a lottare per l’obiettivo, riconquistare il passo delle concorrenti dirette. Quello che il Grottaglie ha paurosamente smarrito.

mercoledì 13 novembre 2013

Bitetto e l'involuzione del Bisceglie

Il Bisceglie è già logoro. Si esprime a fatica e, ormai, soccombe anche a domicilio (anzi, sul neutro di Ruvo), di fronte ad avversario meno quotato e considerato (il Francavilla lo infila un paio di volte, sollevando la crudezza della realtà). A dispetto delle quotazioni che il campionato, sin dall’inizio, tributava ad una formazione che, di questi tempi, non punge (in tutto, sin qui, otto gol realizzati) e che, in fase di non possesso, si sta assentando parecchio. Del resto, anche l’ancora recente transazione tecnica (in panca, ora, siede Favarin) si è presto rivelata inutile, sul piano dei risultati e del rendimento sul campo. Che non si giova troppo neanche di determinati provvedimenti societari (Gambuzza e Del Core, attualmente, sembrano ai margini del progetto), evidentemente insufficienti a recuperare smalto ed energie smarrite. E’ già fuori dalla battaglia per vincere, il Bisceglie. Definitivamente, oseremmo aggiungere. Ed è il caso che la formazione stellata pensi a come evitare di essere risucchiata in quella per la sopravvivenza: perché tutti sappiamo come vanno certe stagioni e come maturano le situazioni più imbarazzanti. Le ultime note di cronaca disegnano una squadra in confusione, lenta e triste. L’ambiente è depresso, il presidente Canonico fortemente deluso. Ma, assicura, non ancora stanco (proprio ieri, pubblicamente, ha promesso di rafforzare la squadra, a dicembre). La scelta estiva degli uomini non paga: esattamente come un anno fa. E le discrete esposizioni economiche del club, ancora una volta, non lasciano sognare la gente che tifa. Mentre si riabilita assai la figura di Francesco Bitetto, il primo coach della stagione che ha già pagato con l’esonero l’involuzione progressiva della squadra. Non l’unico responsabile, a questo punto, dello stato di recessione. E, forse, neppure il primo. Intanto, e pure giustamente, l’allenatore esautorato reclama di aver incontrato, sotto la sua gestione, le formazioni più attrezzate del campionato. Mentre il suo successore le ha evitate: senza guadagnarci, peraltro.

martedì 12 novembre 2013

Papagni e il nuovo Taranto

Quattro partite con Papagni. Cioè, un mese di introspezione, riflessioni, manovalanza psicologica e operazioni tattiche. Dove l’esigenza di conoscere il cuore dei problemi si fondeva con la necessità di verificare le facoltà delle forze attualmente a disposizione e di scegliere le opzioni più affidabili. Quattro settimane di nuovo corso e quattro buoni risultati (pareggio a Pozzuoli e tre successi di fila, contro Grottaglie, Gladiator e Gelbison): ora, il Taranto sembra tornato il pericolo vagante che gli avversari temevano e la squadra solida e affamata che in riva ai due Mari si auguravano di poter salutare. Trenta giorni dopo, sullo Jonio c’è un’altro spirito. Si respira un’altra atmosfera. E brilla un’altra classifica. Il terzo posto (il Marcianise, leader del girone, viaggia quattro punti sopra e il Monopoli è davanti di una sola lunghezza), oggi, è la piattaforma ideale per poter barattare i dubbi dell’altro ieri con le velleità di sempre. Perché, nel frattempo, la squadra ha recuperato sicurezza in se stessa, serenità e ordine nelle strategie. Perché ha riconquistato passo ed energie nervose. Perché pochi e mirati accorgimenti nello scacchiere, un atteggiamento più aggressivo del collettivo, una gestione più consapevole delle situazioni di gioco e molto lavoro applicato sulla psiche della truppa, prima o poi, incidono profondamente. Eppure, Papagni non è un illusionista che s'industria a far magie. Ma un tecnico esperto e intelligente. Morbido e convincente. Ed è uomo semplice e diretto. Un po’ padre, un po’ psicologo. Uno che, con modi garbati, ottiene puntualmente il sostegno della gente che allena e la duttilità dei singoli. Non si è affacciato sulla piazza pubblica degli affari di mezza stagione, cercando svincolati più o meno pronti a salire in corsa su una macchina ingombrante e affaticata. Preferendo, piuttosto, capire caratteristiche palesi e nascoste di chi ha cominciato l’avventura in estate. Soppesando, indagando, incoraggiando. E valutando soluzioni nuove. Somministrando al Taranto una mentalità più costruttiva e infondendo, al di là di tutto, più coraggio: come a Santa Maria Capua Vetere, due domeniche fa, dove una semplice sostituzione (una punta per un centrocampista, niente di inedito) è diventata un messaggio preciso, un input meraviglioso. Utile a vincere il match. Eccolo, il Taranto di Papagni: al centro della corsa, nonostante tutto. Con il permesso della concorrenza, niente affatto irresistibile: almeno sin qui. E con una prospettiva importante: il tecnico, a dicembre, vorrebbe avvalersi di un altro difensore di qualità e di un centrocampista che sa gestire la palla (sempre che non l'abbia già trovato, proprio questa domenica: Ciarcià). Molto probabilmente, li otterrà.

lunedì 11 novembre 2013

Monopoli, un gol al fotofinish per cambiare umore


Le ambizioni non abortiscono alle prime difficoltà. E neppure al secondo ostacolo. Ma l’inconveniente di un infortunio doloroso, di fronte ad una concorrente diretta, proprio nella partita che dovrebbe consolidare l’immagine del Monopoli, rischia di nuocere gravemente alla salute. Indebolendo, nell’immaginario collettivo, il ruolo che la formazione di De Luca, ormai, rivendica con convinzione. I minuti di recupero, però, azzerano il pericolo: il destro di Lanzillotta non è potentissimo, ma angolato. E il pareggio raggiunto oltre il novantesimo, come per magia, scrive improvvisamente un altro tipo di letteratura. Raccontando di una squadra finalmente assetata, affamata e supportata dagli attributi più virili. Mancati, per inciso, in altre occasioni recenti. In un minuto, il quarantasettesimo della seconda parte del match, cambiano diverse cose: la classifica del Monopoli e del Matera (in vantaggio per settanta minuti, inutilmente), le analisi del dopo gara, l’umore dell’ambiente intero e le prospettive future. E certe debolezze fanno spazio ad appetiti nuovi. Il clou della domenica, peraltro, sembra promettere: Strambelli e soci entrano sùbito nel cuore della gara, elevando il quoziente di preoccupazione della mediana lucana, che fatica ad arginare le pressioni. Supremazia territoriale significa intensità: e tutto procede bene. Ma, appena l’intensità cala, spunta la qualità dei singoli del Matera, appena affidato ad una nuova guida tecnica (Antonio Toma). Matera che, in cinque minuti, colpisce due volte, ipotecando il risultato. E che, tuttavia, non possiede il dono della continuità, né una condizione atletica soddisfacente. Le quotazioni del Monopoli si rialzano dopo l’intervallo, appena si rialimenta la densità di manovra. L’ingresso di Laboragine, poi, arricchisce lo scacchiere di De Luca: anche se il numero delle occasioni da gol non si irrobustisce affatto. Ed è proprio qui, allora, che l’orgoglio s’inserisce nelle maglie della gara. Il Monopoli, in dieci contro undici, raccoglie le ultime gocce di coraggio e raggiunge l’obiettivo minimo. Ed è proprio qui che un giorno ingrigito dalle circostanze si riscopre fecondo di significati. E di consigli: per gli acquisti nel mercato di riparazione, innanzi tutto. L’acquisizione di un difensore, da oggi, è un’esigenza inderogabile. Adesso va detto in modo chiaro, inequivocabile. E non importa se diventerà contestualmente necessario tagliare qualcosa, nell’organico attuale. Adesso è il momento: anche perché sembrano davvero tutti (o quasi tutti) convinti dell’urgenza dell’operazione.

domenica 10 novembre 2013

Un'ora di bel Bari


Il Bari fatica ad affrancarsi al concetto di continuità. E la classifica, di conseguenza, non gode. Talvolta, la squadra si affloscia. E le preoccupazioni ritornano: perché la battaglia per la sopravvivenza non è un pensiero trascurabile. Ma il Bari che regola, a casa propria, il Varese (due a uno) non è affatto male: per un tempo, il primo, corre meglio dell’avversario, si fa preferire sul piano della manovra, gestisce il campo e, più tardi, governa bene il vantaggio firmato da Galano. Cerca la profondità e le sovrapposizioni (a sinistra, principalmente), si esprime con personalità e lascia alla timidezza dei lombardi poche geometrie. Sostanzialmente, la formazione di Alberti e Zavattieri è più tosta, come dimostra la buona quantità dei contrasti vinti in mezzo al campo: e il raddoppio, arrivato dagli undici metri (Defendi trasforma in apertura di ripresa) è sigillo che premia fedelmente la sua superiorità. Che viene un po’ scalfita soltanto nell’ultima fetta del match, quando il Varese ha già ridotto, sempre su penalty, il disavanzo, malgrado la sopraggiunta inferiorità numerica: tanto che il primo coach, davanti ai microfoni, a fine gara, è costretto a dettare il proprio disappunto che sorga dalla sofferenza finale. Globalmente, però, la prestazione deve rinfrancare, incoraggiare. Al di là dell’atteggiamento un po’ frenato di Bjelanović e soci, oggettivamente deludenti. E anche il modulo (di partenza è il 4-2-3-1, ma si finisce con il meno spinto 4-3-3) sembra efficace, nell’economia dell’organico. Che, è vero, certe volte si concede qualche pausa, persino comprensibile. Argomenti che spiegano quanto, oggi come oggi, sia legittimo concedere a questa squadra tutta la fiducia che reclama. E quanto, dopo tutto, l’obiettivo dichiarato non costituisca un impegno eccessivamente ingombrante.

lunedì 4 novembre 2013

Martina, il bonus sembra esaurito


Non dimentichiamo quanto pensavamo, sapevamo, scrivevamo. E neppure quanto prevedevamo: il campionato del Martina, cioè, sarebbe stato infido, affaticato. Per la bassa qualità media della base tecnica e per l’insufficiente esperienza di un organico costruito con seconde scelte. Piuttosto, a lavori in corso, ci era pure sembrato giusto cominciare a sottolineare la bontà del lavoro del tecnico: abile ad arginare i problemi con la sostanza del suo impegno quotidiano. Ma, malgrado questo, già discusso in qualche sotterraneo del club e mal apostrofato da qualche sostenitore sufficientemente accalorato. Eppure – è la nostra posizione ufficiale – padre nobile di almeno un paio di punti tra quelli (otto) sin qui collezionati dalla squadra. Di fatto, però, l’onestà intellettuale ci impone di aggiungere anche dell’altro: di come, ad esempio, da un mese a questa parte, la squadra stia vivendo un momento involutivo: sotto la prospettiva degli atteggiamenti, prima ancora che della manovra. Al di là dei risultati. E dei difetti di regolarità: che, peraltro, disturbavano il Martina anche nel suo periodo migliore. E che, pensandoci bene, assillano la maggior parte delle concorrenti del girone meridionale della vecchia C2 (ancora non abbiamo ammirato una formazione in grado di galleggiare sul concetto di continuità per novanta minuti o poco meno, Teramo e Lamezia compresi). Sì, la formazione di Bocchini sembra essersi appiattita, ultimamente: sul piano della pianificazione delle singole partite. E dal punto di vista dell’organizzazione. Due angolazioni sulle quali, per intenderci, si aggrappavano (e si aggrappano ancora) molte speranze coltivate in Valle d’Itria. Ieri, al Tursi, Petrilli e compagni partono morbidi, come in altre occasioni. E subiscono immediatamente il Tuttocuoio, collettivo che sembra disporre di un’ottima mediana, ma che – dopo essere passato in vantaggio – dimentica il compito e s’immerge nella realtà del torneo (venti, venticinque minuti di buon calcio non bastano a giustificare il diritto a pretendere i tre punti). Così come nel corso del match (perso) di fronte al Teramo, seppur obbligato a rincorrere,  il Martina si piazza (per un po’) dietro la linea della palla, dimessamente. Questa volta, comunque, l’avversario è meno furbo e, probabilmente, meno attrezzato: il pareggio, dunque, da qualche parte esce, prima dell’intervallo. Mantenendosi sino al novantesimo: senza proiettare, è vero, la formazione di Bocchini verso posizioni di classifica più serene. Ma nemmeno imbastardendo un percorso già difficile. E, soprattutto, rinviando un processo interno e pericoloso (con la sconfitta il coach avrebbe mantenuto il posto? Crediamo di no). Un punto, dunque: ma, oggettivamente, questo Martina non avrebbe mai potuto ambire a qualcosa di più di un pari (due conclusioni timide di Bozzi, un calcio piazzato di Provenzano e qualche sussulto sono poca cosa). Anche perché i singoli più dotati (come Petrilli e Di Lauri) vivacchiano, senza integrare il tasso di penetrabilità dell’organico. Che, forse, ha già del tutto utilizzato il bonus della buona disposizione tattica e della volontà operaia. Reclamando qualche stampella che solo il nuovo sponsor Gherardini potrà garantire entro il nuovo anno.

domenica 3 novembre 2013

E, alla fine, il Nardò si fa da parte

Senza spiccioli da spendere. Senza esperienza da piazzare sul campo, al fianco della gioventù arruolata . Senza chiarezza. Senza nuovi investitori. Senza prospettive. E senza il sostegno della sua gente. Il destino del Nardò sembrava segnato, da tempo: la prima rinuncia, agli albori di questo campionato di serie D, poi il secondo mancato appello. E il terzo forfait, dopo un breve break di speranza, seppur macchiato da troppi gol nella porta sbagliata, ceffoni sonori. Quindi, la quarta assenza sull’erba di Grottaglie (match previsto per oggi: ma non comincerà). Cioè, l’atto conclusivo. La società salentina firma la propria esclusione dal torneo, in ossequio ad un regolamento che non contempla sconti. Niente da fare, sotto il vestito del blasone non c’è più niente. Neppure l’impegno degli ultimi volontari che avevano accompagnato i giovani di Menichelli all’inizio di ottobre, giusto per scongiurare l’esclusione forzata (che, adesso sì, è improcastinabile). Neppure l’istinto di sopravvivenza. Eppure, dicevamo, qualcuno ci aveva persino provato: a resistere. Stoicamente. Cercando, così, di solleticare l’interesse di nuovi imprenditori. Malgrado l’intransigenza della frangia più calda del tifo, che aveva già deciso per l’eutanasia. Senza se e senza ma. In attesa di una società tutta nuova e di un titolo da acquisire altrove, l’anno prossimo. E dire che qualcosa era addirittura accaduto, negli ultimissimi tempi: Gianluca Fiorentino, ormai ex patron del Manduria, avrebbe voluto rilevare oneri e fastidi, lasciando vivere ancora il Nardò, impostandone sin da adesso il rilancio. Per poi scoprire che, forse, la fine delle trasmissioni e delle sofferenze era un sentimento largamente condiviso, anche tra chi non si era ufficialmente pronunciato. La resistenza, intanto, si è consumata in fretta. Sottraendo al girone appulocampano di quinta serie una delle diciotto protagoniste. Imponendo, da ora in poi, un calendario sempre zoppo. E rimodellando la classifica (i punti che verranno sottratti a quanti li avevano intascati non passeranno inosservati). Cala il sipario, resta soltanto la storia. Prima o poi, però, il Nardò rinascerà. Ripartendo dall’Eccellenza o dalla Promozione. Comunque, da un palcoscenico molto stretto. E ingiusto, per una della poche piazze di Puglia autenticamente legate al pallone e alla sua squadra. Tanto da privarsene per nove mesi: bene che vada.

mercoledì 30 ottobre 2013

Barletta, è già bufera


Le fatiche di Coppa Italia non mentivano: il Barletta impacciato e lento di allora non si evolve neppure in campionato. Dove, a due mesi dallo start, la classifica sembra già condannare gli investimenti estivi, le sicurezze e gli ottimismi del presidente Tatò, il lavoro dell’operatore di mercato Martino e le scelte del tecnico Orlandi: partito, quest’ultimo, con una discreta dote di credibilità, guadagnata sul campo nella seconda parte della stagione trascorsa e ormai praticamente sperperata tra settembre ed oggi. Tre punti, quelli collezionati sin qui, dicono molto: dei disagi del gruppo in fase di impostazione, dello scarso appeal nel cuore delle difese avversarie, della difficoltà a sterzare a gara in corso, della fragilità della terza linea in quasi tutte le occasioni. Il penultimo posto occupato attualmente in graduatoria (al di sotto, naviga la sola Nocerina) sembra oggettivamente autentico. Come autentici sono gli altri numeri che illustrano il caso: soltanto due gol segnati, dieci marcature sofferte e cinque sconfitte in otto gare. E come autentico è disappunto della tifoseria, mortificata anche dall’ultima prestazione della squadra, piegata a Pagani da un’altra formazione zoppicante. Tifoseria che, per la verità, rumoreggia da un  po’. E che, pressando la proprietà, ne ha consigliato il disimpegno: ancora formale, cioè da confermare. Ma ugualmente preoccupante. Tatò, riconoscendo i limiti del Barletta e i propri errori, ha rassegnato le dimissioni già a ridosso dell’ultimo match: garantendo, tuttavia, la copertura gestionale sino alla fine del campionato. E, dunque, lasciando indifese anche le posizioni dei suoi più stretti collaboratori, Martino su tutti. Non c’è più tanto feeling, tra la gente che tifa e il vertice societario: e questa è una notizia datata. Eppure, l’episodio è assai più fastidioso di quanto possa sembrare: perché, quest’anno più di altri (la terza serie non contempla retrocessioni), sarebbe stato opportuno lavorare con profitto in prospettiva, più che per l’immediato. E perché, soprattutto, ci priva di una certezza: quella di una stagione priva di grandi assilli, in quanto liberata dagli incubi di un’ipotetica partecipazione alla lotteria della permanenza.