La leadership
della Vigor Lamezia (dodici punti in quattro gare) non impressiona troppo il
Martina, che, al Tursi, affronta il
match con coraggio. La disposizione dello scacchiere e la manovra, come sempre,
sono rigorosamente pulite. La formazione di Bocchini, peraltro, si ritaglia
qualche occasione, che serve ad acquisire maggior sicurezza. Il miglior
quoziente tecnico individuale dell’avversario emerge a tratti, ma con fatica. E
solo con lo scorrere del tempo il raggio d’azione dei calabresi si amplia. Quando,
cioè, provano ad amministrare di più la palla e a guadagnare profondità, scalfendo
di conseguenza la visibilità di Petrilli (ex in ombra) e soci. Che, in
prossimità dell’intervallo, rifiatano. In sostanza, primo tempo decisamente
equilibrato: e diversi motivi per ritenersi soddisfatti. La ripresa, invece,
nasconde più sofferenza: la
Vigor si fa più corposa e cresce sotto il profilo della
quantità, pressando e schiacciando il Martina. Che sembra aver perso
brillantezza e fiato e che argina con maggiore difficoltà. Il Lamezia, allora,
continua a fare la gara, sprecando un paio di match point.
Il compito, però, sembra complicarsi alla mezz’ora (doppio
cartellino giallo per Zammuto): Il nuovo 4-3-1-1 disegnato dal coach
umbro,
tuttavia, si regala un paio di incursioni che certificano il processo di
crescita, sotto il profilo della personalità, di un collettivo poco
disposto a
trincerarsi, malgrado tutto. E che lasciano dettare a Bocchini, in sala
stampa,
frasi pregne di soddisfazione e orgoglio (oltre tutto, questo zero a
zero è un risultato di discreto peso specifico). Tecnicamente, in
effetti, la squadra
sta lievitando. E pure approccio e comportamenti tranquillizzano i più
esigenti
e i più delusi dal rovescio consumatosi sette giorni prima, a Caserta.
Il
Martina, sottolinea il tecnico, necessita della fiducia che aiuta a
pretendere
di più da se stessi. Può darsi che sia davvero così: di certo, comunque,
proprio la partita teoricamente più ostica della prima porzione del
torneo
promuove l’umiltà di un gruppo che non dispone di troppe certezze
assolute e
che può sostenersi soltanto sull’applicazione e sulla regolarità.
lunedì 30 settembre 2013
venerdì 27 settembre 2013
Il Manduria e il giovane Enoch
Il pallone è come la quotidianità di noi tutti: per
riciclarsi, o solo per continuare a pulsare, oppure – assai più semplicemente -
per galleggiare, necessita di stimoli sempre nuovi, di soluzioni estreme e, magari,
di effetti speciali. Tutti ingredienti che, lo sappiamo, si amalgamano bene allo stile di
vita due punto zero. E poi il calcio è un mondo globale. Dove l’emulazione è un
marchio depositato ormai da tempo. E così, anche nei quartieri meno nobili si
vive, sempre più spesso, tra vetrine e sindrome da glamour: ma, se il palcoscenico dei grandi attrae, qualcuno dovrà
pure rincorrerlo. E’ tutto scritto, quindi. Ecco l’ultimo caso: il Manduria si
è affezionato ad un’idea meravigliosa, quella di scrollarsi l’anonimato in cui
si è arenato da anni e di arrampicarsi verso la visibilità. Partecipa al suo
secondo campionato di Eccellenza, dopo aver seriamente rischiato di essere
lasciato fuori, per questioni puramente economiche. Gianluca Fiorentino,
imprenditore arrivato da Cavallino in piena estate, ha rilevato il titolo e,
dice, anche un po’ di debiti, cancellando al
fotofinish la paura e rilanciando il progetto. Che prevedeva il
potenziamento dell’organico (i lavori sono tuttora in corso), una
salvezza
tranquilla (teoricamente più che possibile, adesso) e la costruzione
delle fondamenta
per pianificare il ritorno in D, dove il calco manduriano ha soggiornato
a lungo, in passato. Malgrado il momento economico niente affatto
favorevole e, dettaglio da non trascurare, la sopraggiunta inagibilità
parziale
dello stadio Dimitri, ormai aperto
per pochi intimi (duecentocinquanta: pochi, per una piazza tradizionalmente
calda come quella jonica). Un vero e proprio ostacolo, quest’ultimo: che prima
ha rischiato di spedire il Manduria sul campo di Maruggio e poi di provocare il
black-out (Fiorentino aveva
formalizzato il proprio disimpegno, per poi ritrattare quarantott’ore dopo).
Scavando, comunque, un solco di freddezza tra il club e l’amministrazione
comunale. Dunque, progetto salvo. Recuperate le energie, anzi, il presidente
sembra aver consolidato il programma: continuando ad operare sul mercato, a
torneo già avviato. E disegnando successive strategie. Gli effetti speciali,
appunto. Come Enoch Barwuah, un coloured
che, presentato così, dice poco. Invece, il ragazzo è fratello di sangue di
Mario Balotelli, ovvero l’artigliere più chiacchierato del momento. Almeno in Italia. Non avrà,
Enoch, gli stessi colpi, lo stesso talento della prima punta della Nazionale: ma, a modo suo, anche lui possiede
il sacro fuoco, dentro. Che lo ho fatto transitare, senza troppi successi, nell’arco
di pochissimi mesi, attraverso diverse situazioni, un po’ ovunque (l’ultima
avventura si è consumata a Malta, nel Qormi). Non è, evidentemente, un tipo facile, il ragazzo.
E la rincorsa alla notorietà, cioè all’emulazione, probabilmente non lo aiuta
neppure. Come il Manduria, anche Enoch cerca visibilità. Che, ovviamente, il
club tarantino ancora non può garantirgli: l’Eccellenza pugliese è pur sempre
l’Eccellenza pugliese. La trattativa tra il club e il giocatore, dunque, dopo diversi
giorni di confronto, si è arenata definitivamente: notizia di oggi. Nonostante il presidente abbia deciso
di mettere a disposizione dell’attaccante ingaggio (sostanzioso, immaginiamo),
villa con piscina e auto dotata di autista. Niente male davvero. Fine della
storia. Ma il progetto del Manduria non si arresta qui. E, chissà, altre
iniziative fioriranno. Meno glamour,
speriamo. Perché l’Eccellenza, da queste parti, è un campionato vero. Dove si
veleggia con giocatori di categoria, che conoscono la realtà e le insidie del
campionato, ma anche degli ambienti in cui si misurano. Un campionato sommerso,
certo. Ma che reclama solidità, concretezza: anche estro, se serve, ma non
fumo. E neppure figurine da collezionare.
mercoledì 25 settembre 2013
Il Bari scafato e furbo sorprende
Parlando con i numeri, questo Bari sorprende,
effettivamente: undici punti (tre dei quali annullati dalla penalizzazione) in
sei prestazioni, tre successi ed una sola caduta, quarto posto virtuale (e nono
reale) in graduatoria. I giovani di Alberti e Zavettieri, dunque, procedono. E
procedono bene. Ripercorrendo i passi della formazione affidata a Torrente,
dodici mesi addietro: prima investita dalla diffidenza popolare, ma infine premiata
dalla permanenza in B, in fondo ad un campionato non sempre semplice, perché
condizionato dal grave handicap di
partenza. Traducendo: il Bari ci crede e battaglia, cresce e si fortifica. Magari,
senza celebrarsi troppo (è un consiglio) e senza adagiarsi (è un auspicio). La
certificazione di maturità, intanto, arriva nel turno infrasettimanale del
martedì, quando il sinistro liftato di Sciaudone (reattivo e concreto per tutto
il match) e il colpo di testa di Ceppitelli affondano il Palermo di Gattuso,
prontamente esautorato da patron Zamparini. Un Palermo, sia detto, più vivo di
quello che le cronache e le parole dettate in sala stampa da Budan, team
manager siciliano, descrivono: capace, cioè, di tenere palla e di gestirla (con
scarsi risultati, evidentemente). Il Bari, però, è velenoso nelle ripartenze.
E, spesso, conquista la conclusione. Potrebbe esserci pure un penalty, a
favore, nella prima porzione di gara: ma il vantaggio si concretizza poco dopo,
alla mezz’ora. La mediana rimane proprietà dei siciliani anche più avanti, ma
Romizi e soci guadagnano progressivamente intensità e autostima. La partita,
cioè, resta apertissima e vera: se l’avversario prova ancora a spingere, il
Bari replica puntuale. Sino al raddoppio, poco oltre la metà della ripresa: che
tuttavia non chiude il match, in quanto Lafferty lo riapre immediatamente. Il
due a uno, però, è difeso sino al traguardo. Così come la prima sensazione: al
di là della carta d’identità di ciascuno, questa squadra sembra già abbastanza
scafata, smaliziata e furba. Non è affatto poco.
martedì 24 settembre 2013
Lecce, si cambia
E’ difficile, adesso, salvare il soldato Moriero.
Quattro sconfitte di sèguito condannerebbero chiunque: a qualsiasi latitudine.
Figuriamoci, allora, in un ambiente come quello del Lecce, animato da troppe
buone intenzioni e accreditato da molti pronostici. Zero punti dopo un mese di
campionato è rogna seria, altro che. Ovunque. Ma soprattutto nel Salento, dove
la fibrillazione stagna da un po’ di mesi. La squadra affonda ancora in casa
propria: questa volta se ne compiace il solido Catanzaro, che passa agevolmente
(due a uno). Ovviamente, anche la prestazione è difettosa: frutto – anche, ma
non solo – dello scollamento mentale di un organico evidentemente inadatto ad
aggredire il campionato di terza serie. Della cui costruzione il tecnico, che
pagherà per tutti, non può assumersi la responsabilità. Anche se, al momento
opportuno, avrà approvato e avallato. Frettolosamente: per non perdere, chissà,
l’occasione di poter lavorare nella sua città. E’ un Lecce, questo, che sembra
non possedere attributi. E, probabilmente, sopravvalutato. Dalla tifoseria,
dagli avversari, dagli addetti ai lavori, da tutti. Costruito, asseriscono i
più maligni, con le seconde scelte che il mercato sottoponeva (altrove, certo,
un’operazione del genere funziona: ma vincere, o tentare di vincere, implica
logiche diverse). E spruzzato dall’euforia di un Miccoli nel motore: che,
magari, avrà pure contribuito a nascondere la realtà. Solo per un po’, comunque.
Cioè, dietro l’artigliere di Nardò (infortunatosi, peraltro), non esiste un
collettivo. Domenica, al di là della doppia inferiorità numerica maturata nel
corso dei novanta minuti, mancavano brillantezza, sostanza, ordine, concetti.
Ora, invece, si gira pagina. Con un nuovo responsabile tecnico: che sarà
ufficializzato in queste ore (Lerda?). Con un profilo psicologico bassissimo. E
con una sola accogliente certezza: quest’anno, in C1, non esiste il vocabolo
retrocessione. Meno male.
A metà mattinata, a post già pubblicato, la comunicazione ufficiale del club: via Moriero, dentro Lerda. Come anticipato. Un ritorno, quello del trainer piemontese. Che, se ricordiamo bene, nel corso della passata stagione, dal vertice della società era stato fortemente criticato, osteggiato, esonerato- E, prima ancora, anche delegittimato.
A metà mattinata, a post già pubblicato, la comunicazione ufficiale del club: via Moriero, dentro Lerda. Come anticipato. Un ritorno, quello del trainer piemontese. Che, se ricordiamo bene, nel corso della passata stagione, dal vertice della società era stato fortemente criticato, osteggiato, esonerato- E, prima ancora, anche delegittimato.
lunedì 23 settembre 2013
Il Brindisi e il primo esame da big
Arriva il momento in cui le big si incrociano e si confrontano.
Anche il Brindisi, in virtù di una campagna acquisti considerata importante,
pretende la sua fetta di nobiltà: segno distintivo, invece, del Matera, club
che ha speso, continua a spendere e, probabilmente, ancora spenderà (il suo
mercato è praticamente sempre aperto, come dimostrano gli ultimi due pezzi
della collezione: l’ex Campobasso Majella, già in campo ieri, e Sorrentino,
appena transitato da Monopoli dopo la leadership
nella classifica marcatori del girone appulocampano di D la stagione scorsa). Succede,
però, che in certi casi vince la prudenza. Le formazioni di Ciullo e di Cosco
(entrambi allontanati dal direttore di gara nel corso dell’intervallo) si
studiano e si rispettano e un po’, alla fine, si temono. Sembra che né il
Brindisi, né il Matera vogliano scoprirsi troppo e, quindi, rischiare. Vero è,
però, che – con lo scorrere dei minuti – la formazione lucana comincia ad
occupare il campo con regolarità e metodo. Obbligando l’avversario, di
conseguenza, a ripartire da dietro. Intendiamoci: questo Matera non abbaglia,
non asfissia. E chi attende gli effetti speciali rimane irrimediabilmente
deluso. Ma, se non altro, sembra un collettivo più solido di quello che sarebbe
persino logico attendersi, considerati i nomi ed i cognomi del roster (basti guardare la panchina,
affollata di gente come Ciano, Sy, Todino, Di Gennaro, Roselli, Letizia: roba
da C1). E, comunque, più robusto di quello vantato dodici mesi fa. Tornando al
match, gli ospiti si mantengono sempre alti, trattenendo la palla per gran
parte del tempo. Mentre la manovra di Marsili e soci, sempre schiacciata, non
si evolve mai e si allarga ancora meno. E’ un po’ stretto, il Brindisi. E si
accentra troppo. A Pellecchia manca la progressione, la profondità, lo spunto.
A Gambino mancano i palloni (l’unica occasione spendibile càpita tra i piedi di
Tedesco, nella prima frazione di gioco). Alla squadra, difettano gli artigli. In
sostanza, un punto collezionato di fronte al Matera (finisce zero a zero) è capitale prezioso, dopo
tutto. Ma, per provare a diventare grandi, serve qualcosa in più. Anche (e
soprattutto) contro le big
dichiarate. Ecco, la gente di Ciullo non offre mai la sensazione di poter
sfondare, di poter segnare. Ed è questa l’immagine che, infine, resta nella
memoria.
giovedì 19 settembre 2013
Grottaglie, la competitività è garantita
Dopo tutto, il vecchio gruppo
di comando (nessuna trattativa estiva si è sviluppata sino in fondo) e il
responsabile di mercato (Antonio Marrone, tornato ad occuparsi dell’Ars et
Labor) sembrano aver consegnato ad Alberto Bosco, trainer alla prima esperienza
di prestigio, un organico che – almeno- può giocarsi la salvezza sino alla
conclusione della stagione. Senza essere, cioè, considerato retrocesso ancor
prima di partire. Nonostante le possibilità limitate (non è cambiato niente,
infatti), il nuovo Grottaglie non è così male come i più pessimisti temevano.
Chiaro, non ci sono i big che
innervano altre formazioni del girone appulocampano di quinta serie (anche se,
in questo campionato, gente come il portiere Maraglino, ex Taranto, è un singolo di assoluto spessore). E l’obiettivo,
ovvero la salvezza, è tutto da inseguire e conquistare. E, dunque, niente
affatto scontato. Ma, nel complesso, l’elenco a disposizione del tecnico può
considerarsi qualitativamente assai più convincente di quello della stagione
appena trascorsa, per esempio. Come conferma la presenza nel roster di singoli interessati come
Gnoni, Anglani, Sanna e Faccini. Quanto basta, se non altro, a contrastare la concorrenza,
mediamente più agguerrita di dodici mesi fa (il livello si è alzato, questa è
la verità). E come confermano i numeri: la sconfitta onorevole patita
nell’esordio, di fronte all’attrezzato Brindisi, la vittoria in campo neutro
ottenuta sul San Severo e il successivo pareggio contabilizzato al D’Amuri contro una concorrente diretta
come la Puteolana
mettono assieme quattro punti. Una dote che, negli ultimi anni, il Grottaglie
aveva raggiunto solo a torneo abbondantemente avviato. Poi, questa squadra sembra
saper soffrire. E appare mentalmente già alloggiata nella logica del suo
campionato. Parliamo di una base di partenza assolutamente fondamentale.
Ovviamente, potrebbe non essere sufficiente. E riteniamo che Bosco e la squadra
lo abbiano capito sin da sùbito. Improbabile, tuttavia, che il club possa
regalarsi, a lavori in corso, qualcosa in più: il budget è quello e non si può sforare. L’Ars et Labor, dunque, dovrà
farsi bastare la bontà del lavoro, la fame della sua gioventù, l’esperienza
maturata – un po’ qui e un po’ là – da chi è appena arrivato, l’abitudine alla
lotta di quanti si sono guadagnati la conferma (Formuso, Quaranta, Pisano,
Presicci) e la lucidità del suo condottiero, molto più smaliziato di quello che
ci saremmo aspettati. E non solo davanti alla telecamere.
mercoledì 18 settembre 2013
Foggia, partenza in salita
Non è un campionato semplice, l’abbiamo detto. Questa
C2 è un magma in cui tutti
combattono tutti e dove non esistono zone franche. Si sale, oppure si
scende:
non c’è una terza via. Oltre tutto, la qualità media si è alzata: anche e
soprattutto per ospitare chi, in C1, non ha trovato ingaggio: e sono
tanti.
Eppure, la partenza del Foggia è meno convincente di quanto ci saremmo
attesi.
L’ultima prestazione, quella consumata a domicilio contro la capolista
Vigor Lamezia,
coincide con una sconfitta che sembra alimentare i primi disagi.
Risultato (netto, zero a due) a
parte, la formazione del confermato Padalino non offre le risposte
giuste a certi quesiti già abbondantemente emersi. Anche se, in fondo,
il collettivo si muove molto meglio di sette
giorni prima (brutta caduta a Teramo). In mezzo al campo si continua a
faticare
abbastanza, dietro si soffre troppo e persino davanti (Giglio non è
ancora
nelle condizioni più rassicuranti, Leonetti pure) qualcosa non quadra.
Qualcuno
sembra aver accusato il salto di categoria. E i nuovi arrivi non
decollano
ancora (anche se, per esempio, dopo un avvio di stagione incerto, Filosa
appare
ora più tonico). Un punto in tre partite, di cui due disputate allo Zaccheria, non è score di cui vantarsi. Tanto che la società continua a guardarsi
attorno (potrebbe firmare Colombaretti, che in Capitanata già conoscono). Di
fronte ai calabresi, il Foggia parte discretamente bene: ma sono gli episodi a
scolpire il match. Poi, l’ordine e l’aggressività degli avversari, contrapposto
alle imperfezioni di Agnelli e soci in entrambe le fasi spiegano molte cose. Però,
il 3-4-3 varato per l’occasione dal coach merita, evidentemente, un’altra chance. Se è vero, come è vero, che lo
stesso Padalino non ha nascosto di aver gradito alcune cose. Del resto,
continuare a modificare puntualmente il modulo potrebbe non servire. Non
adesso, almeno. In un momento in cui, cioè, il Foggia necessita di qualche
certezza. E di un passo più marcato, più sicuro.
martedì 17 settembre 2013
Il Nardò affonda, senza giocare
Scarsa liquidità,
rinnovamento societario da verificare sul campo, smobilitazione. A Nardò il
castello delle illusioni crolla vorticosamente, nello spazio di pochi giorni.
Il club ribadisce le difficoltà economiche, la squadra intuisce che il tempo
fugge: e, chi può, saluta, sfruttando gli ultimissime ore di mercato. Calabuig,
ad esempio, si accasa a Casarano, in Eccellenza. E qualcun altro trova casa
altrove. In D (al Vico), nella Premier
League di Puglia, dove capita. Manca il materiale umano, quello con cui il
Toro aveva affrontato i primi turni del campionato: senza peraltro decurtare
corposamente la penalizzazione di partenza (quattro punti): quindi, niente
match (in casa) contro il Manfredonia. Che si presenta e intasca il successo,
senza neppure sudare la maglietta. Zero a tre a tavolino, un altro punto di
penalità: ma questi sono problemi marginali. Perché è il futuro stesso della
società ad essere in pericolo. Presentarsi con la Juniores
si potrebbe, per la verità: cioè vivacchiare per garantirsi una continuità, ma
non la permanenza in quinta serie. E per costruirsi la piattaforma utile a
rifondare: l’anno prossimo, magari. Ma la gente che tifa non gradisce la
soluzione e preme per scongiurare il disonore. Se il Nardò rinuncia alla sfida
con il Manfredonia è soprattutto a causa del desiderio popolare: che, in quella
parte del Salento, conta parecchio. La tifoseria granata sceglie la forma,
ancora prima della sostanza: e certe cose fanno sempre rumore. Difficile
immaginare, adesso, una soluzione ragionevolmente comoda. Ma, al di là di
tutto, riteniamo che il titolo sportivo vada salvaguardato, a qualsiasi costo.
Frenando, se ce ne sarà bisogno, anche la stizza incontrollabile e autolesiosista
della piazza che soffre da troppi anni e che si è ritrovata – senza colpe – al
centro delle querelle sviluppatasi
attorno a troppe posizioni: quella della vecchia dirigenza, della nuova e
dell’amministrazione comunale. No, il titolo sportivo non va disprezzato,
neppure in Eccellenza. E va difeso, sino in fondo. Sempre che su di esso,
ovviamente, non incomba il peso di una massa debitoria eccessivamente alta: nei
confronti dello Stato, ad esempio. Sarebbe un’altra storia, in questo caso. Chi
sa, perciò, parli chiaramente: è il momento di farlo.
lunedì 16 settembre 2013
Un derby che non chiarisce
Non sempre quel che sembra è.
Spesso, il risultato sovverte gli equilibri che il campo sta disegnando.
Soprattutto se, nel mezzo, scivola un derby di tradizione. In cui la seconda
parte della commedia racconta una storia diversa. Consegnando un epilogo
inatteso soltanto alla metà del percorso. Tra Monopoli e Bisceglie va così: un
tempo per ciascuno. Ma i tre punti si sistemano nella classifica di Lanzillotta
e compagni. Prima imballati e vaghi, poi solleticati da un vantaggio episodico e,
infine, maturati alla distanza. Tanto da lamentare la mancata legittimazione
del vantaggio acquisito. E, per almeno sette giorni, liberati da ogni oscuro
pensiero. Certe sensazioni, tuttavia, stagnano. Riassumiamole così: da principio
il Bisceglie è più sciolto, più reattivo, più pronto. La sua manovra è più
pulita, più fluida. Vero: non sgorgano azioni di rilievo, ma la formazione di
Bitetto tiene bene il campo e si regge alto. Il Monopoli si fa schiacciare, si
impigrisce, non pulsa. Nel mezzo, non propone: anche perché difetta un
catalizzatore di gioco (Laboragine giostra da punta esterna, costringendo
Strambelli a retrocedere in mediana). Il discorso ci suggerisce, tra parentesi,
una domanda: ma, considerate le caratteristiche dei singoli, è davvero
necessario sistemarsi con un centrocampo a tre? Ripresa: proprio Strambelli,
dopo nemmeno quattro minuti, si fa trovare ai limiti dell’area, offrendo
compiutezza ad un errato disimpegno difensivo di Allegrini. Il gol, come si
dice, spacca la partita. Ne devia il flusso. E determina il destino del match.
Bloccando e confondendo il Bisceglie, che si smonta e si rapprende. E
confortando la squadra di De Luca, che adesso si fa preferire sotto il profilo
della densità e dell’intensità. Due ingredienti che permettono di gestire il
derby sino in fondo. E di mancare il raddoppio un paio di volte. Fuori dai
novanta minuti, cioè, schizzano due collettivi ancora inespressi. E ancora
acerbi per discutere la propria candidatura al traguardo pubblicizzato (frettolosamente?)
dalle rispettive società. Anzi, per dirla tutta – e limitandoci alle cose del
Monopoli – ci sembra addirittura che la pressione sviluppatasi attorno stia
innervosendo e infastidendo il gruppo. Che, probabilmente, non dispone neppure degli
argomenti più appropriati per contendere il primo posto ad altre realtà più
corazzate. Forse, sventolare sin dall’avvio della stagione le ambizioni di
promozione non è stata un’ottima idea.
venerdì 13 settembre 2013
E sull'Adriatico le voci strisciano maligne
A Brindisi, magari, la gente che tifa sperava in una squadra immediatamente redditizia, fortemente concreta. Non che i quattro punti raccolti nei primi due match (vittoria a Grottaglie e successivo pari ottenuto a domicilio, di fronte al sempre tosto Gladiator) siano poca cosa: ma, se le dichiarazioni della vigilia sono floride, è facile che la fiducia popolare si ampli velocemente. Ed è altrettanto facile, poi, che le prime difficoltà coincidano con certi spifferi maligni. Ecco perché il club, a metà settimana, è stato persino costretto a diramare un comunicato stampa: secondo il quale coach Ciullo non rischia assolutamente nulla. E che la sua panchina è, al contrario, salda: malgrado, sull’Adriatico, qualcuno si sforzi di insinuare il contrario. Del resto, chi scommette su un divorzio imminente può agevolmente nutrirsi di una verità: il Brindisi, al di là del semplice ottimismo di maniera, non dispone di un elenco di disponibili robusto. E, in caso di prevedibili infortuni e di eventuali squalifiche, non può appoggiarsi su un numero di seconde linee importanti. Un dettaglio, questo, che lascerebbe preferire la concorrenza (formazioni come il Matera e la Turris, per esempio, potrebbero schierare due formazioni distinte, entrambe attrezzate) e che, oltre tutto, potrebbe aver solleticato le preoccupazioni dell’allenatore. Diventato, nel frattempo, più esigente. Invece, fa sapere il presidente Flora, nessun caso oscuro. Ne prendiamo, come sempre, atto. Di fatto, però, un intervento ufficiale di questi contenuti finisce irrimediabilmente per confermare che un problema di fondo esiste. E’ un po’ come una richiesta di smentita: è, cioè, una notizia riferita due volte. Si configura, intanto, più o meno la stessa situazione anche poco più in là, a Monopoli. Dove la sconfitta di San Giorgio a Cremano, nuova casa del Mariano Keller, l’ex Campania, sembra aver spalancato le porte al malumore. Che traspare al di fuori e anche al di dentro della società. Sembra, quello biancoverde, un ambiente un po’ inquieto, oggi. Troppe voci si accavallano. E qualcosa schizza anche dall’interno dello spogliatoio. La posizione del trainer, De Luca, non sembra più così inattaccabile come un tempo. A due sole settimane dall’avvio del torneo, peraltro. Già martedì scorso il club ha voluto rassicurare tutti: con un altro comunicato stampa. Per il quale vale lo stesso discorso speso per il Brindisi, ovviamente. Diciamo che della nota inviata dall’ufficio stampa del Monopoli non si avvertiva assolutamente la necessità: e punto. Anche se Pettinicchio, ex Taranto e Trani, sembra già pronto ad ereditare la guida tecnica, se la prossima gara (al Veneziani, dopodomani, arriva il Bisceglie) dovesse sfuggire dai piedi di Lanzillotta e compagni.
mercoledì 11 settembre 2013
Lecce, partenza choc
Partì forte, fortissimo. Ammanettando il campionato per qualche mese. Poi, l’anno scorso, il Lecce rovinò vicino al traguardo: prima nella regular season e, successivamente, ai playoff. Grandi numeri, dicemmo. Ma scarso sacrificio, tante volte. Quest’anno, nel progetto avallato dal nuovo coach Moriero, c’è forse meno qualità diffusa (anche se i big non mancano affatto: Miccoli e il riconfermato Bogliacino su tutti) e più gente che sa lavorare di quantità. L’approccio alla stagione, però, è totalmente differente: due sconfitte su due. Una a Salerno (ci può persino stare, contro una pari grado) e l’ultima a domicilio, di fronte all’Aquila (caduta triste, conseguenza diretta di un match molle). Per un club ed una formazione che puntano dichiaratamente alla serie B, è già troppo. Immaginiamo lo stato d’animo della famiglia Tesoro, che non si è risparmiata neanche l’autocritica, presentando le proprie scuse per la prestazione inguardabile della squadra. E immaginiamo quello della gente che tifa. Tradita da un Lecce che, domenica, dopo essere entrato in partita abbastanza tardi, si è lasciato travolgere dalla foga e, dunque, dall’imprecisione. Certo, aggredire la serie C e poi non arrivare all’obiettivo, come nel passato recente, serve a poco. E resta l’auspicio di un collettivo che deve solidificarsi, in attesa di appaltare un rush finale convincente. Ma quello salentino sta diventando un ambiente calcisticamente caldo: molto più di un tempo. E, se le polemiche, non solo sotterranee, hanno minato la parte centrale e quella conclusiva del tragitto dello scorso campionato, accompagnandolo verso un destino orribile, adesso rischiano di minacciarlo da sùbito. Puntando il coltello addosso a Moriero, cioè l’anello più debole della catena. Che, in mancanza di risultati, neppure la sua stessa genuina e profonda salentinità potrà preservare a lungo.
martedì 10 settembre 2013
L'Audace tra la D e il nulla
C’è una società in attesa
ansiosa, l’Audace. E, tanto per infrattarci nella retorica, una città che
osserva e spera, Cerignola. Poi, guardando meglio, c’è pure un microcosmo intero
(il girone appulocampano del campionato di serie D) che si ingolosisce attorno
ad una notizia che non arriva ancora e che non sgorgherà prima di qualche
giorno. Malgrado il torneo sia già partito da due settimane. Senza il club
dauno, ovviamente. Perchè è così che va: con i tempi ristretti del pallone, con
l’estate delle carte bollate, della Covisod e dei ripescaggi, con i tempi
tecnici che l’Alta Corte del Coni deve pure rispettare. Vediamo: il Cerignola,
in fondo alla stagione appena trascorsa, si era assicurato il diritto a
giocarsi la finale della Coppa Italia riservata alle formazioni di Eccellenza.
Partita persa al fotofinish, per la
cronaca: quanto basta per promuovere gli avversari (i marchigiani della
Fermana) in quinta serie. Come da regolamento. Festeggiamenti inutili,
peraltro: perché la Fermana,
oberata dai debiti, si è liquefatta in fretta, lasciando una sedia libera. Ma,
nel contempo, assicurandosi il salto di categoria ugualmente: rilevando, cioè,
il titolo di un’altra società. A surrogare il vincitore, di solito, è chi ha
perso la finale: dunque, il Cerignola avanza la propria candidatura al
ripescaggio. Legittimamente, aggiungiamo: se non altro, perché manca, nelle
norme sui ripescaggi, un paragrafo che regoli la questione specifica. Invece,
niente: questa volta valgono solo le graduatorie di merito e titoli redatte
dalla Federazione. E in Capitanata non gradiscono, promuovendo un’azione
legale. Che va avanti. Il primo round
(l’ammissibilità del ricorso), è vinto: ma occorre ancora qualcosa (il giudizio
finale dell’Alta Corte del Coni, appunto). Intanto, l’Audace non si è neppure
iscritta al campionato regionale di Eccellenza, partito proprio domenica scorsa.
E, dunque, adesso le prospettive sono due: o il Cerignola viene ammesso in
seconda battuta al campionato di D, oppure fine delle trasmissioni. Cioè del
calcio cittadino. Nella speranza, magari, che un titolo sportivo tutto nuovo
transiti oltre l’Ofanto l’anno prossimo. Un bel problema: del Cerignola nel
caso che si avveri la seconda ipotesi. E del campionato di serie D in caso di
ammissione. E sì: il torneo, oggi, possiede un calendario che, eventualmente,
sarebbe stravolto. I club diventerebbero diciannove: e tutti si ritroverebbero
ad osservare due turni di riposo ciascuno. E la regolarità della stagione non
sarebbe affatto salvaguardata. Oggettivamente, non avremmo mai scommesso su una
decisione (qualunque decisione) più celere: un iter legale pretende i suoi tempi. Probabilmente, avremmo gradito la
partenza ritardata del girone, giusto per non correre il rischio di inciampare
in complicazioni più grandi: il male minore, dopo tutto. Ma sappiamo bene che
il pallone non si ferma facilmente. E che un precedente del genere diventerebbe
pericoloso per il sistema-calcio. L’Alta Corte, però, un segnale l’ha dato: rinviando
il verdetto, che sarebbe dovuto arrivare ieri. Un segnale da interpretare: come
un’esigenza di valutare attentamente la questione. O come un consiglio: che il
campionato prosegua, le speranze del Cerignola sono molto più che ridotte. Il
rinvio, ad ogni modo, assume contorni sinistri, per come la vediamo noi:
reinventarsi un campionato tutto nuovo dopo tre o, peggio, quattro giornate già
disputate è improponibile. E tecnicamente complicato. Tanto da travolgere
qualsiasi responso. Anche il più benevolo.
lunedì 9 settembre 2013
Alla seconda, il Taranto si sveglia
Il Taranto, in D, è una big. Per definizione. Per una questione di blasone. Per la storia
che il pallone dei due Mari ha raccontato in un passato, per la verità, ormai
sempre più lontano. E, questa volta, anche per il ruolo che la società ha
voluto cucire addosso alla squadra di Enzo Maiuri: rimodellata, dopo un anno di
ambientamento, ad uso e consumo di una promozione da coltivare e inseguire. Quel
traguardo, cioè, abbondantemente pubblicizzato prima di partire: malgrado la
patina protettiva di quelle parole un po’ vaghe e misteriose («campionato
importante», si è detto) che vogliono dire e non vogliono dire. Il Taranto, in
questa serie D, parte per vincere. Punto. Anche se la robusta rivisitazione
dell’organico, lo ripetiamo ancora, finisce paradossalmente per minacciare il
progetto, certe volte. E pure se le concorrenza è temibile. La squadra
allestita, perciò, è di spessore: frutto di scelte mirate (pensiamo, tra gli
altri, agli ingaggi di Clemente e Balistreri, o di Ciarcià e Muwana) e di investimenti di più che
discreta portata.. Ma la quinta serie non concede alcun diritto di
inviolabilità. E la prima uscita (allo Iacovone
con la matricola Real Metapontino, una settimana fa) è affaticata: scarsa
tracciabilità di calcio ispirato, reticenze varie, penetrazione insufficiente,
una conclusone dagli undici metri sprecata e appena un punto. Quanto basta per
attirare le prime critiche, i primi dubbi. L’avversario, poi, contiene con
sacrificio, vanificando gli sforzi e illustrando la realtà del pallone a certe
latitudini. Molto, molto migliore è invece la resa sette giorni più tardi, cioè
ieri, a Manfredonia, sul sintetico di uno sparring
partner più quotato e meglio disposto a giocarsi il match. Tre gol nella
prima mezz’ora chiudono il conto con anticipo esagerato e i minuti che restano
servono a gestire il vantaggio e a rifinire il punteggio (finirà quattro a uno
per gli jonici). Il Taranto, è vero, è più brillante, più tonico e anche
decisamente più concreto. Più immediato, più diretto. Si spalma sul campo per
fare la partita e la fa. Guadagnando sùbito metri e procurandosi le occasioni
per passare. Disponendosi con autorevolezza, sin da principio. Comportandosi
esattamente come deve una big. In
mezzo al campo si lavora di quantità e di qualità, davanti gli artiglieri si
fanno trovare. Tutto abbastanza semplice, persino. Il classico caso di novanta
minuti che sbugiardano i precedenti: può accadere, soprattutto agli albori del
torneo. Eppure, le due situazioni differenti cercano di spiegare immediatamente
dove e come la formazione di Maiuri dovrà giocarsi il proprio campionato.
Ritagliandosi gli equilibri giusti. Perché un fatto è il duello con i pari
grado o con le formazioni che devono necessariamente preoccuparsi di costruire
anche qualcosa, lasciando spazi e varchi. Dunque, la possibilità di orchestrare
e colpire. E un altro battagliare con gli orizzonti corti di chi preferisce
tutelarsi a qualsiasi costo. Decurtando l’ossigeno e scavando fossati. Un
atteggiamento che, soprattutto allo Iacovone, si concederanno parecchi. Consapevoli
di incontrare una squadra che sentirà il peso di ogni sfida, ogni domenica. E
che non potrà godere di molti bonus.
Né di troppa indulgenza.
mercoledì 4 settembre 2013
Martina, dal campionato una conferma
Il pareggio in sé, alla prima
prova del campionato, significa poco. Anche se arriva sul terreno di casa. Ma
contro una formazione sicuramente meglio carrozzata e più ambiziosa come
l’Arzanese. Eppure costretta a disputarsi il match, quasi nella sua interezza,
in dieci elementi contro undici. Il primo punto del Martina, molto più
semplicemente, va valutato nel corso di una stagione particolare: che premierà
gli sforzi e lo spessore di otto squadre su diciotto (almeno in prima battuta:
perché, poi, i playout ne salveranno un’altra). Ma la gara di domenica scorsa,
probabilmente, ci suggerisce altro. O meglio, avvalora la prima sensazione,
quella maturata già in Coppa, una settimana prima. La formazione di Bocchini,
cioè, si muove attorno a precise coordinate tattiche, si nutre di un ordine
talvolta rigoroso, punta parecchio sull’organizzazione di base e, malgrado i
limiti delle singole pedine, si sforza persino di far circolare il pallone. Tutte
prerogative di una squadra che sa di dover replicare alla miglior qualità
altrui con un progetto ben definito, che sappia mascherare certe debolezze
strutturali. Tutti segni distintivi di una realtà che prova a galleggiare nella
categoria con una certa dose di speranza. Tutte caratteristiche di un collettivo che bada
alla sostanza, ingrediente primo in un torneo normale. Solo che la C2 di quest’anno torneo normale
non è: perché troppi avversari appaiono, almeno teoricamente, più dotati
(pensiamo, in ordine sparso, a Messina, Ischia, Cosenza, Foggia, Casertana,
Chieti, Teramo, Aprilia, Sorrento, Castel Rigone e alla stessa Arzanese). E
perché, innanzi tutto, individualmente questo Martina difetta tanto. Gli
episodi che si annidano dentro i novanta minuti parlano abbondantemente: al di
là delle imprecisioni in fase di possesso e di non possesso, che sono i
passaggi più evidenti. E anche al di là dell’incapacità di governare una
partita in superiorità numerica (quello, semmai, è un problema di personalità o, come dice il tecnico, di esperienza).
Il Martina, molto spesso, sale: ma non si ritrova. E, ancora una volta,
Petrilli (calcisticamente parlando, è più dotato del gruppo, con Gai e Leuci) deve affrettare
la conclusione, o perdere il tempo nell’esecuzione. Mancando la sponda per
dialogare e, certe volte, il punto di riferimento, non c’è alternativa. In mezzo
al campo, peraltro, latita l’autorevolezza: e l’Arzanese blocca le presunti
fonti di gioco senza dannarsi troppo. Anzi, mantenendo il possesso di palla per
buona parte della contesa. E potremmo continuare. Del resto, sono proprio le
sfide come queste a spiegare un po’ di situazioni. Facendoci capire la
differenza tra il Martina tatticante vispo e tecnicamente un po’ arido e il
resto della compagnia: che, magari, applicherà un calcio meno solido, liberando
il potenziale dei propri artiglieri. Quelli che, alla fine, decidono le gare e il
campionato.
lunedì 2 settembre 2013
Monopoli, tanto lavoro e vittoria di misura
La nuova versione del Monopoli è un 4-3-3 che costruisce molto e fa viaggiare il pallone. Nel solco del progetto tattico e tecnico della passata stagione. L’immagine della formazione riaffidata a De Luca non è affatto stravolta (qualche innesto estivo, qualche partenza, blocco solidificato), quindi offre garanzie ampie di tenuta. E di subalternità alle big riconosciute del torneo (Turris, Matera, Taranto, Brindisi). Ma la prima uscita di campionato (uno a zero sul Manfredonia, al Veneziani) è un test tutt’altro che agevole. Il successo è garantito dall’acuto di Amato (prova lucidissima, gol a parte), a metà della ripresa: eppure persiste l’impressione che la disparità numerica (il sipontino Romito si fa cacciare per doppia ammonizione, prima dell’intervallo) finisca per influire, alla lunga, sullo score finale. Parte convinto, il Monopoli. Montaldi, rientrato alla base pochi giorni prima dello start, in fondo ad una preparazione precampionato consumata in Calabria, con l’Hinterreggio, è subito pericoloso. La squadra tutta sembra conoscere attentamente il copione: calcio largo, accelerazioni, penetrazioni. Sgorgano diverse opportunità, che la disciplina e l’organizzazione del Manfredonia (formazione sufficientemente esperta e ordinata, ben assemblata dal lavoro di Cinque, puntuale nelle ripartenze) faticano ad arginare: per venti minuti abbondanti. Se Montaldi lavora principalmente di quantità, Strambelli e Di Rito appaiono però indietro, sotto il profilo dell’intensità. E la formazione di De Luca denuncia qualche ritardo negli ultimi metri. Cioè: tanta fatica, scarso reddito. L’allontanamento di Romito, poi, spinge l’avversario a tutelarsi maggiormente e a restringere gli spazi. Il Monopoli continua a fare la gara, ma con lo scorrere del tempo si riscopre anche meno brillante. La seconda frazione di gara è sicuramente meno densa della prima: e ci sta anche questo. Ma il gol, infine, allontana qualche dubbio. Dunque, il Monopoli è già squadra. E, dotandosi di maggior concretezza, potrà anche divertirsi. E, perché no, divertire. Il primo esame e complessivamente superato: ma attendiamo la controprova. Parlare a settembre è sempre rischioso.
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