lunedì 24 febbraio 2014

Grottaglie, sconfitta che mente

Tra dicembre e gennaio, il Grottaglie ha immagazzinato più qualità diffusa. E assoldato, anche numericamente parlando, la gente che può trascinarlo alla salvezza. Persino senza passare dai playout. Pettinicchio, poi, è un tecnico navigato, che sa assemblare il gruppo. Quattro successi nelle ultime cinque uscite, infine, riconsegnano ottimismo, fiducia, speranza. Riavvicinando il pubblico agli spalti del D’Amuri. C’è un’aria diversa, dunque, attorno all’Ars et Labor del duemilaquattordici. E lo scontro con il deludente Matera capolista sembra avvalorare certe sensazioni, determinate prospettive: malgrado il risultato che esce dal match sia fastidioso (zero a uno, i lucani accelerano e allungano su Marcianise e Taranto), ancorché bugiardo. Di fronte alla formazione di Cosco, anzi, è proprio il Grottaglie a farsi preferire. Per intensità, ordine tattico, gestione della palla, quantità. Per un’ora buona e anche qualcosa in più. E’ la squadra di Pettinicchio ad osare qualcosa in più. Con personalità. Il Matera, invece, si affida al mestiere, ad un pragmatismo robusto e alla malizia: ma senza brillare. Con un calcio un po’ opaco: redditizio, certo, però sbiadito. Impermeabile nella sostanza, ma non troppo convincente: neppure in fase di non possesso. Di più: il Grottaglie fa la gara e anche il gol che la decide. Sbagliando porta. Botticini, proprio davanti a Maraglino, prova a precedere un avversario, va in fibrillazione e si assume la paternità di una sconfitta incongrua. Accade tutto a metà del primo tempo, ma tutti i minuti che restano non bastano a recuperare il pari che, al di là dei torti e delle ragioni, costituirebbe uno score di assoluta utilità. Così come non serve la temporanea superiorità numerica: in undici contro dieci l’Ars et Labor precipita in un’altra ingenuità individuale (Fumai commette fallo da tergo) che finisce con il costare il ristabilito equilibrio delle forze in campo e un’altra buona dose di chances. Se non altro perché proprio il trequartista barese, operando tra le linee, sta disturbando non poco il traffico davanti all’area di rigore lucana. Nell’ultima mezz’ora, così, il Grottaglie si scopre un po’ più sfilacciato, meno pungente e pure meno lucido. Tiene ancora palla, ma perde alcune coordinate. E, di conseguenza, il match. Ma non la fiducia, né la speranza. O l’ottimismo. Anche un certo tipo di sconfitte, in fondo, rafforzano la certezza di potersela finalmente giocare contro chiunque, ogni settimana. E la caduta di ieri fa parte di questa categoria. Anche se altri due cartellini rossi in novanta minuti (a fine gara Maraglino si pregiudica almeno un paio di turni) lasciano credere che il Grottaglie debba ulteriormente crescere: la permanenza, del resto, passa anche attraverso il governo dei propri sentimenti e delle situazioni. Non solo quelle di gioco. Lo stesso Pettinicchio concorda, tra amarezza e fatalismo. Non fosse per questo, probabilmente, calerebbe sin d’ora le mani in tasca, tastando il traguardo. Senza troppi dubbi.

mercoledì 19 febbraio 2014

Paparesta lascia, è il punto di non ritorno

«Certe voci disturbano. Sapere, proprio mentre le trattative con i possibili acquirenti si evolvono, del sequestro dei cartellini (di Galano, ndr) e della quantificazione irrealistica di un disavanzo economico è un peso insostenibile. E io non ho intenzione di collezionare brutte figure». Parola più, parola meno, è il pensiero di Gianluca Paparesta, ormai ex gestore dell’auspicato travaso societario del Bari. A dimissioni formalizzate (e concordate con la proprietà), non resta dunque che avvalorare quella sensazione di debolezza di determinate dinamiche (e, soprattutto, di determinate operazioni) e di un attrito sempre più possente tra l’ex direttore di gara e il gruppo che sta provando a guidare il Bari in regime di autogestione. Come alcune recenti parole del diesse Angelozzi, peraltro, avevano abbondantemente lasciato pensare. Ricapitolando, il club di via Torrebella sembra al punto di partenza. Senza liquidi, sotto il peso di troppe pressioni (gli stipendi vanno onorati, per non incorrere in nuove penalizzazioni), minacciato dall’ombra del fallimento e senza grandi prospettive. Anzi, avanza sempre più prepotente l’ipotesi di una procedura di autofallimento: che, al momento, appare la situazione meno dolorosa e più utile alla causa. Le dimissioni di Paparesta dovrebbero segnare, dunque, anche un punto di non ritorno. Preparando, appunto, il terreno per le manovre estreme. Quelle che, però, potrebbero consegnare il futuro: di cui, tuttavia, oggi non conosciamo il prezzo. E che, perciò, piovono probabilmente al momento più opportuno. Discutere e confrontarsi, a questo punto, non serve più. Avviarsi verso le incognite del futuro sarà fastidioso: ma, di sicuro, significherà accorciare i tempi. Comunque vada a finire. E prepararsi a tutto.

martedì 18 febbraio 2014

Flora prende le distanze dal sogno

Il Taranto non è bello e neppure irreprensibile, tatticamente parlando. Anche nel derby con il Brindisi: che, malgrado tutto, vince. I difetti strutturali, del resto, sono quelli già affiorati e riconosciuti. E resistono. Dietro, ma anche in fase di filtro, ci si confonde sempre più spesso. Ed anche la formazione di Chiricallo naviga con profitto tra le disattenzioni e le amnesie avversarie. Come quella, ad esempio, che permette agli adriatici di ritrovare il pareggio, prima che il primo tempo tramonti. E prima che la gente di Papagni trovi gli argomenti per raddrizzare la questione, dagli undici metri (penalty forse generoso o forse no: ma che ci può pure stare. E che gli ospiti stessi omettono, comunque, di utilizzare come paravento per la sconfitta). Ma anche il Brindisi non è particolarmente frizzante. Non è quello più convincente e robusto che, appena sette giorni prima, ha abbattuto il Monopoli, per intenderci. E, talvolta, non brilla neppure per attenzione: il vantaggio jonico, per dirne una, nasce da un disimpegno improbabile di Vetrugno. Gambino e compagni, peraltro, non perdono soltanto la partita: ma anche parecchio appeal e tante quotazioni. La caduta dello Iacovone, inutile sottolinearlo, finisce infatti per spingere il collettivo  troppo al di sotto della soglia minima dalla quale coordinare le operazioni di attracco alla serie superiore. Se ne rende conto, tra l’altro, pure Ninì Flora, a cui non mancano mai slanci di realismo. La sua disamina del giorno dopo, nel corso di un’introspezione televisiva del momento, è un po’ brutale: ma, con ogni probabilità, anche sostanzialmente esatta. Il Brindisi, ammette il presidente, è un collage di buoni giocatori, ma non di giocatori vincenti. Ovvero, disabituati a vincere. Lo avvalla, ovviamente, la storia personale di molti di loro. E la piega che sembra aver preso il campionato. In un certo senso, intanto, Flora ripone idealmente tutte le ambizioni sin qui cullate, malgrado inviti la squadra a crederci ancora. Prendendo atto, in pratica, di una situazione contingente. E’ come se il Brindisi, cioè, si sentisse già fuori dai giochi: anche per questo, allora, il girone H sembra aver perso una delle sue sette protagoniste prima del tempo.  

lunedì 17 febbraio 2014

Quando la qualità fa la differenza

La settimana difficile del Monopoli (De Luca via, De Luca reintegrato, polemiche, silenzio stampa, tifoseria imbronciata) carica di tensione la gara che arriva: e i novanta minuti di una domenica come le altre diventano, all’improvviso, i più difficili e delicati. Terreno buono per il San Severo, che scende al Veneziani per scrivere il suo compitino saggio e, possibilmente, efficace. Pochi slanci, poca tecnica, un minimo di ordine: la resistenza della formazione di Rufini dura un’ora o poco più, senza neppure l’intoppo dell’affanno. L’avversario è contratto, discontinuo nella proposta, pensieroso, morbido. E tutto va come deve. Non c’è ritmo, nella manovra della squadra di casa. E neppure intensità. Il match è abbastanza ingessato e i dauni non possono chiedere di meglio. Passano i minuti e il San Severo acquista persino confidenza con il campo, avanzando di qualche metro: quanto basta per tenere i pericoli il più distante possibile. Il Monopoli galleggia, cercando un guizzo, un varco, l’illuminazione in mezzo al campo. Che arriverà solo più tardi, a ripresa già avviata, appena si affaccia sul campo Laboragine, uno dei meno convincenti nell’ultima uscita, quella di Brindisi,  e sin lì tenuto in panca, al pari di Castaldo. Laboragine, in realtà, spacca la partita. Contestualmente, il collettivo di De Luca acquista il passo, le dinamiche, il dinamismo, l’ampiezza, la continuità, l’agilità. A Lanzillotta e soci bastano pochi minuti per reinventarsi il copione, forzare il destino e chiudere i conti. Sul risultato finale (quattro a zero) c’è poco, alla fine, da commentare. Il San Severo umile e operaio, improvvisamente, sprofonda. Un paio di punte in più (prima El Ouazni e poi Cesareo) e la rivisitazione del modulo (dal più scolastico 4-4-2 ad un più aggressivo 4-3-1-2) non reggono l’urto e ogni buon proposito si frantuma. Proprio nel momento in cui la gente di Rufini si ritrova nella condizione di chiedere a se stessa qualcosa di più della semplice gestione delle normali operazioni di traffico. E’, cioè, una questione di qualità strutturale: con la quale occorrerà evidentemente convivere e con cui la squadra dovrà affrontare l’ultima parte del campionato, quella decisiva. Non una bella notizia, a quanto pare. Soprattutto in un momento storico caratterizzato dalla sicurezza che sembra assistere diverse concorrenti alla salvezza. Dall’altra parte, invece, il Monopoli ritrova il risultato e, parzialmente, la serenità: riavvicinandosi idealmente alla propria gente, anche se – ad esempio - l’attrito tra una parte dei sostenitori e il tecnico rimane. Il resto, piuttosto, arriverà – se arriverà – con la continuità di rendimento. Quella sette sconfitte conosciute lontano dal proprio terreno di gioco, del resto, pesano ancora molto. Mentre il campionato (a proposito, il Matera si stacca e tenta la fuga) pretende un atteggiamento sempre vigoroso, aggressivo. Come quello della seconda porzione della gara di ieri, ovviamente: non quello del primo tempo, per intenderci.   

mercoledì 12 febbraio 2014

De Luca e la comunicazione franca. Che non guasta


Insistiamo. Ma del Monopoli, adesso, bisogna parlare. Perché l’ambiente, a Monopoli, ora si è un po’ surriscaldato. Con una storia, quella del licenziamento e dell’immediata riassunzione del tecnico  De Luca, che parecchi non hanno digerito. Lasciandolo capire chiaramente: persino con una bomba carta lanciata dall’esterno all’interno del Veneziani, durante l’ultimo allenamento (fatto assai antipatico: esagerare non è bene). Con una storia che, per il momento, possiede un unico vincitore: il tecnico, appunto. Persona per bene, che lavora tanto e che, sin qui, in due anni e mezzo sull’Adriatico, ha ottenuto risultati evidenti. Che, talvolta, può aver fallito un obiettivo: ma che, nel computo generale, può essere considerato un ottimo investimento della società. Al di là di qualche inclinazione del carattere: spesso, ad esempio, si sente accerchiato e soffre un po’ la pressione mediatica (ma se, come crediamo, dovesse raggiungere anche categorie superiori, in piazze ugualmente o persino più prestigiose di Monopoli, dovrà necessariamente abituarsi alle controindicazioni del caso). E, in determinate occasioni, tende a parare il colpo, rilanciando: ovvero, minimizzando quello di cui l’opinione pubblica si accorge. Aprendo parentesi, De Luca – lo ripetiamo – forse non è riuscito, quest’anno, a dotare la sua squadra di quel buon calcio esibito nella scorsa stagione: è un’opinione, ovviamente: la nostra. Eppure, ritenevamo e riteniamo che, ancora oggi, malgrado tutto, il trainer di Castellana sia la persona più indicata a terminare il torneo. Se non altro, per aver costruito e ricostruito l’organico. Per conoscerne profondamente pregi e difetti. Per la sua capacità di modificare in corsa, tatticamente, la squadra. E, infine, per la labilità di un cambio di panchina a questo punto del campionato (qualche volta va bene, spesso peggiora la situazione). Detto per inciso, il suo esonero non scandalizza e, infatti, non ci ha scandalizzato per nulla: abbiamo visto e commentato di tutto, in trent’anni di calcio. E non ci ha scandalizzato neppure la decisione del club di reintegrarlo. Corretta, probabilmente, nella sostanza. Ma debole nella forma. Non è, questo, un problema di De Luca, ovvio: lo è, semmai, della società. Che ha preso in prestito una motivazione immediatamente ricusata, seppur non ufficialmente, dalla stessa squadra (questa è storia). Come la gente che tifa e vive la realtà quotidiana sa bene. Quella società che, evidentemente, sembra essere caduta in una buca: cose che possono accadere e che, puntualmente, accadono, anche a livelli più alti. Che, evidentemente, non ha saputo gestire un momento. Che, evidentemente, ha sbagliato il primo intervento (l’esonero) e non il secondo (la riassunzione). Che, attualmente, per questo e per altri motivi strettamente collegati si ritrova contro una buona fetta di supporters. E che, però, va sempre e comunque ringraziata per quanto ha saputo offrire alla città da quando si è costituita. Operando con serietà, dedizione e, tantissime volte, trasparenza. E’ bene sottolinearlo anche su queste colonne: dove, in genere, non si regala niente a nessuno. Del resto, nel ménage quotidiano di una società le problematiche pulsano. E gli errori sono un inconveniente possibile. Errori che, chi prova a commentare i fatti in profondità, è libero di poter evidenziare. Purché si affidi ad un garbo sostanziale e all’onesta intellettuale. Anche avanzare una o più ipotesi, è compito della stampa. E proprio le ipotesi spese nell’ultimo post di questo blog, ci risulta, non sono state gradite. Sia da De Luca, intervistato il giorno dopo da una televisone locale, che dalla società. Tutto assolutamente legittimo, ci mancherebbe. Queste colonne non sono il vangelo. E non vogliono insegnare niente a nessuno. Ma si sforzano, però, di capire. E di far capire qualcosa in più ai suoi dieci o quindici lettori. Non è piaciuto, soprattutto, il passaggio che riportiamo testualmente: «E’ accaduto qualcosa, per forza. Tipo: (...). Oppure: esistono dinamiche parallele al campo di gioco che pesano. E che non possono essere ignorate: di questi tempi, innanzi tutto. In cui le quote societarie possiedono diversi padroni». Parole che, sùbito dopo, hanno innescato la reazione di De Luca («mi rivolgo a tutti gli stupidi che pensano che il sosttoscritto sia tornato solo perchè possiede delle quote in società. Non esistono queste stronzate»). Il tecnico, però, deve aver letto tra le righe qualcosa che, di fatto, non è stata scritta. Provvedendo, probabilmente, a prevenire eventuali sviluppi concettuali sul tema: con una precisazione della quale, intanto, prendiamo atto. Peraltro, una comunicazione franca, senza filtri, non ci dispiace affatto. E, dunque, ben venga. Le parole, poi, vanno e vengono: e non ci offendiamo di niente. E poi, come lo stesso De Luca potrà convenire, confrontarsi, seppur a distanza, può sempre tornare utile. Per chiarirsi, laddove ce n’è bisogno. O per offrire all’opinione pubblica maggiori elementi di analisi. Ben tornato, allora.

martedì 11 febbraio 2014

Monopoli, dietro front: De Luca resta

E, adesso, qualcuno non capirà. Meglio: già non sta capendo. Non sta decodificando e non riuscirà a tradurre con parole semplici l’esonero di Claudio De Luca, allontanato della panca del Monopoli in coda all’impronunciabile quattro a zero di Brindisi. Se è vero, come è vero (la notizia è del pomeriggio di oggi, proprio quando Sgobba, Sciannimanico e Renna, tre potenziali sostituti, attendevano un cenno definitivo dal club adriatico), che l’allenatore di Castellana si è ripreso l’incarico neppure ventiquattr’ore dopo la sentenza di condanna. Esatto: é come se non fosse accaduto nulla. Anche se qualcosa, evidentemente, è successo. E non parliamo della sotterranea sollevazione della squadra: che, di fatto, sembra non ci sia stata. Al di là di quanto si é detto e scritto. E’ accaduto qualcosa, per forza. Tipo: Vito Laruccia, dirigente con la maggior esposizione economica, potrebbe aver convinto i suoi partner a rivedere la situazione, mai pienamente condivisa da colui che rimane il presidente storico del sodalizio. Oppure: esistono dinamiche parallele al campo di gioco che pesano. E che non possono essere ignorate: di questi tempi, innanzi tutto. In cui le quote societarie possiedono diversi padroni. Oppure, dietro, c’è altro che ci sfugge. Intanto, la questione, per come si è evoluta, non piace e non piacerà ad una fetta della tifoseria, quella più calda e presente. E questo è un fatto. Che non ci vieta neppure di pensare alle polemiche che starebbero per strisciare in queste ore o in quelle immediatamente successive. Mentre viaggia, nella rete e nelle parole di strada, la sensazione di un autogol: piovuto nella serata di lunedì, all’epoca dell’esonero. O il martedì, il giorno della redenzione. Caduta un’ipotesi, resta sempre l’altra.

Disfatta nel derby, a Monopoli si cambia

Cambiano i protagonisti. E, talvolta, anche i sistemi di gioco. Ma il calcio del Monopoli, in questa stagione, è assai meno brillante di quello praticato dodici mesi fa. E’ una costatazione: insindacabile. Malgrado l’organico abbia l’obbligo di pretendere il meglio da se stesso: anche in virtù della corposa rivisitazione maturata tra dicembre e gennaio. La squadra di De Luca, certo, si ritaglia spesso belle cornici di gioco e, alcune volte, risultati persino brillanti. Per poi lasciarsi puntualmente travolgere da cali di tensione sospetti, che ne frenano il passo. Come, recentemente, a Bisceglie. Come a Taranto, più in là nel tempo. Come a San Giorgio a Cremano, agli albori del torneo. Come in altre occasioni. E come domenica, a Brindisi. Nel derby più atteso e sentito dalla propria tifoseria, anzi, il Monopoli crolla. Quattro a zero è score pesante. Che intralcerebbe la serenità di chiunque: figuriamoci, allora, se non disturba proprio in riva all’Adriatico, dove le fibrillazioni non mancano mai, quando il campionato non procede come dovrebbe. Caduta disarmante: proprio nel giorno in cui il Brindisi saluta l’arrivo in panchina di Marcello Chiricallo, l’ex che riesce a bloccare la saggezza di Lanzillotta e ad irretire le idee di una squadra già di suo un po’ timida. Tra gli osservatori, c’è chi parla apertamente di vergogna. Mentre il tecnico, davanti ai microfoni, ancora una volta minimizza le esitazioni del gruppo, rivendicando qualche merito che la realtà, invece, non riconosce. E, sùbito dopo, la gente che tifa, bloccata a casa da una nuova misura restrittiva, accoglie la comitiva, al rientro, con una contestazione ferma. L’atmosfera comincia a bollire. E, allora, la società comincia ad interrogarsi. Il lunedì è, solitamente, il giorno della riflessione. Ma, a Monopoli, è il momento di riunirsi. L’esonero di De Luca è il provvedimento più gettonato, in sede di previsioni. E così è, infatti. Il derby di Brindisi rappresenta il punto di non ritorno. Perché, al di là del risultato, immalinconiscono alcuni atteggiamenti della squadra. Per dirla tutta, anzi, il tecnico di Castellana sembra pagare quella mancanza di coraggio che, spesso, in trasferta, ha scavato la distanza dal successo. In un campionato ancora molto aperto e, dunque, meritevole di qualsiasi operazione che possa agevolare il futuro prossimo. La società, di fronte alla brutalità degli eventi, supera peraltro qualche comprensibile divisione emersa tra le varie anime che la compongono. Ma, assicura, non corre dietro i voleri della piazza: che in larga parte, ormai, aveva scaricato De Luca. Forse, anche per quel vezzo di nascondere certe verità così difficili da confutare.


 

lunedì 10 febbraio 2014

Il derby scontenta tutti


Martina-Foggia è uno di quei derby che finisce per scontentare tutti. Accade puntualmente, quando la classifica pretende molto da chiunque. Ma succede pure quando il pareggio vuole accarezzare le due parti opposte della barricata, finendo per svilire l’impegno un po’ arruffato di chi deve raggiungere la permanenza e per punire il governo un po’ sciatto delle proprie chances di promozione. Il Foggia crede nell’ordine della manovra, nella ripetitività del suo giropalla: comincia a costruire con lucidità, ma poi si smarrisce. Il 3-5-1-1 di Padalino fa viaggiare il pallone, ma non penetra mai. Il Martina è più istintivo e meno geometrico. La sua urgenza si scontra con il mestiere dell’avversario e l’aggiramento della pratica del pressing, che pure servirebbe. Il 4-4-2 di Napoli, più spiccio e meno sereno, si infila puntualmente nell’imbuto: e le soluzioni dalla distanza non soccorrono. Gai e soci, con il tempo, guadagnano in quantità e in possesso della palla, ma l’avvenuta inferiorità numerica prima dell’intervallo (De Lucia fuori per doppio giallo) finisce inevitabilmente per intralciare il processso di crescita dei padroni di casa. Il Foggia, che evidentemente gradisce parecchio pure il pari, sembra però non volerne approfittare. Preferendo gestire molto (e sin qui va bene) e osare poco (e questo va meno bene, a determinate condizoni). Appena lo fa, comunque, si ritrova in vantaggio (l’ex Colombaretti ingigantisce un cattivo intervento di Leuci), seppure per soli centottanta secondi. Il pareggio è un incrocio tra l’ingenuità catastrofica di Sciannamè (fallo inutile ai limiti dell’area su Ilari, che procede spalle alla porta) e la freddezza di Montalto, dagli undici metri. Dopo, c’è solo il Martina: che ci mette coraggio e cuore, ma non la precisione. Vero, agli jonici manca anche un secondo penalty: i dauni, cioè, rischiano molto, vanificando l’enorme comodità di un uomo in più per oltre cinquanta minuti, recuperi esclusi. Probabilmente, perché Giglio resta troppo distante dal corpo della squadra. Forse, perché il lavoro di cucitura di Venitucci, tra le linee, si rivela insufficiente. O, magari, perché difetta un po’ di volontà politica. Ovvero: il Foggia si scopre all’improvviso schiavo della sua classifica importante, accontentandosi. Oppure, fidandosi poco di se stesso. Lasciando, così, alla formazione di Napoli il campo e anche il diritto di recriminare. Addirittura.

domenica 9 febbraio 2014

Due volti, tre punti

Il Bari trova il corazzato Siena, ma pesca il gol a match appena sorto (João Silva) e tutto si fa più facile. Se, contro la Reggina, sempre al San Nicola, era immediatamente inciampata nell’obbligo della rincorsa, questa volta la squadra di Alberti e Zavettieri può operare di rimessa e di astuzia, con metodo e calma. Certo, qualche pallone mal gestito comincia a schizzare qua e là: ma, quando imposta da dietro, arriva generalmente in fondo. Sciaudone e compagni guadagnano autostima e, a sinistra, sfondano regolarmente: I toscani, da quelle parti, soffrono abbastanza (niente pressing, niente copertura di palla) e difettano in intensità. Il Bari, poi, è più vivo anche nei contrasti. Importante è, magari, tutelarsi un attimo, quando serve: è con la palla tra i piedi che il Siena dà il meglio. Anche per questo, talvolta, la gente biancorossa deve lasciar fare. Prima dell’intervallo, comunque, Defendi s’inventa il guizzo del due a zero, che sembra mettere il risultato in discreta sicurezza. E, invece, no. L’avversario lievita sul profilo della quantità, della personalità e della convinzione. Gioca di più e, abbastanza presto, riduce lo scarto. Mentre il Bari, inversamente proporzionale, perde velocemente terreno e densità, chiudendosi con qualche impaccio e subendo l’iniziativa dell’organico di Beretta. Senza replicare. Alberti blinda la mediana (con Lugo prima e con Beltrame poi), il Siena si affida all’onda d’urto di quattro punte: ma la controindicazione sembra soprattutto qualla di un diverso approccio mentale alla fase finale del match. Ancora una volta, cioè, finisce per non convincere l’amministrazione della partita, proprio in prossimità del traguardo. Dettaglio di per sé grave (e assai lesivo, in passato): che, nel caso specifico, non comporta scompensi (il successo è salvo, malgrado tutto), ma che va pure - e definitivamente - analizzato con attenzione.

lunedì 3 febbraio 2014

Lecce, rincorsa interrotta



La rincorsa si interrompe proprio quando l’appetito si allarga voluminosamente e la posta assume un peso specifico decisamente rilevante. Il Lecce, in casa, si piega alla capolista Perugia, due volte in doppio vantaggio. Riuscendo a rimediare solo nella prima occasione. E scalciando la prospettiva di ridurre drasticamente quello che rimaneva del corposo disavanzo di un tempo. Il match è ricco: di gol (finisce quattro a tre per la formazione di Camplone) e di gioco. Se è vero, come è vero, che un osservatore qualificato come Serse Cosmi applaude con convinzione a vincitori e sconfitti, indistintamente. Il responso, invece, è povero. Perché assorbe diversi indizi negativi (lo svantaggio maturato molto presto, la tensione accumulata a partita in corso, la prestazione robusta dell'avversario, qualche indecisione individuale, l'inferiorità numerica che frena il progetto della seconda rimonta). Ma, al di là di tutto, resiste una sensazione: la gente di Lerda continua ad essere parte attiva negli intrecci di un campionato che premierà immediatamente una protagonista e, in seconda battuta, chi saprà gestire meglio la lunga questione dei playoff. Ai quali, almeno, il Lecce sta ultimamente dimostrando di poter ambire con legittima ambizione. Non che il discorso per la prima piazza sia ancora aritmeticamente chiuso. Nonostante i dieci punti dalla vetta, adesso, comincini a farsi distintamente sentire. L’ultima partita, però, chiarisce che, probabilmente, questa squadra deve necessariamente puntare alla solidificazione del proprio processo di maturazione e, magari, rassodare la propria posizione alle spalle della formazione umbra e del Frosinone, viceleader del torneo. E, dunque, prepararsi psicologicamente al rush finale (da marzo in poi gli equilibri possono mutare: lo dice la storia della serie C) e, eventualmente, alla lotteria degli spareggi. Che mai come questa volta saranno fisicamente e mentalmente dispendiosi. Una lotteria diversa dalle precedenti: dove il piazzamento finale nella regular season conterà davvero molto più di un po’. E dove il Lecce, chissà, potrà partire privo della pesante corazza del favore del pronostico. Che l’anno passato intralciò non poco.