Prima il Brindisi, dopo il Francavilla, poi il Monopoli, quindi il
Marcianise, infine la
Turris. Una dopo l’altra, cadono molte protagoniste della
quinta serie che alberga tra la
Puglia e la
Campania. E il campionato seleziona le forze migliori.
Premiando, cioè, chi ha sbagliato meno. Il rush
finale è una corsa che riguarda Matera e Taranto. E nessun altro. Lotta a due,
battaglia dura. Stessa resa (cinquantotto punti, prima di domenica scorsa), stessi match a disposizione (due). E,
attorno, il profumo di spareggio. Incandescente, affascinante. Ma in questo
torneo, ormai lo sappiamo, le porte si aprono, si chiudono, si riaprono e si
richiudono con facilità disarmante, in un vortice di emozioni purissime. E
davvero niente è scontato. Oltre tutto, il calendario è infido per tutti, sino
in fondo: anche per il Matera, che viaggia verso Vico. E pure per il Taranto,
ospitato dal Marcianise. I costieri cercano punti per salvarsi, ma la gente di
Cosco passa ugualmente. Mentre la formazione jonica si ferma, spartendo la
posta con i casertani, troppo orgogliosi per rassegnarsi alla quinta piazza
dopo tre quarti di stagione di rilievo e qualità. Ecco, allora, che i destini
sembrano compiersi prima del tempo: il Matera vede la C e progetta di superare in casa
il Manfredonia, nel prossimo match, per festeggiare. E il Taranto mastica amaro,
amarissimo. Rispolverando tutti i suoi limiti proprio davanti al traguardo. Non
è, del resto, un segreto: con esperienza e personalità, Papagni ha occultato (o
ridimensionato) la natura sdrucciola di un organico male assortito, poco
equilibrato (penetrante nell’area avversaria, morbido in fase di filtro e non
possesso) e non sempre credibile nelle occasioni che contano. Cioè, nelle gare che
indirizzano la stagione. Sin quando ha potuto, però. Per intenderci: gli
accorgimenti tattici e il buon senso del tecnico biscegliese, con il sostegno
di un alto quoziente realizzativo, hanno finito per sostenere il collettivo,
mantenendolo sin qui in prima fascia: eppure, i problemi strutturali di un
tempo sono rimasti tutti e gli infortuni individuali e di reparto hanno scritto
il resto. Pesando al momento della verità. La partita di Marcianise, peraltro,
riassume un po’ di verità assolute. Denudando, al contempo, un atteggiamento
difettoso: il Taranto si porta in vantaggio per due volte, finendo però per
intimorirsi e per concedere metri e iniziativa alla manovra della formazione di
Fogliamanzillo. In sostanza, reticenze e personalità sbiadita condannano la
squadra ai playoff: a meno che il campionato non riservi, al fotofinish, l’ultimo coup de theatre. A verdetto virtualmente
scritto, tuttavia, non possono convincerci le prime accuse, più o meno feroci,
schizzate irrazionalmente sulla società, sul tecnico e sugli effettivi di un
organico allestito con sacrifici estivi non indifferenti e, soprattutto, in fretta,
alle soglie del torneo. La riappropriazione del calcio, sui due Mari, d’altra
parte, è un processo lento che deve tenere conto di molti dettagli e, prima di
ogni altra cosa, degli insegnamenti del passato. Approfondire le valutazioni ed
esercitare il diritto di critica è legittimo. E, anche da queste colonne, nessuno
ha mai circumnavigato la questione, discutendoci sopra. Ma sparare addosso a
questo Taranto, sia pure sulla scia della delusione o della frustrazione, è
ingiusto. Almeno questa volta, le attenuanti ci sono: e sono roba seria.
mercoledì 30 aprile 2014
martedì 29 aprile 2014
Martina, tra delusione e speranze
E, ad un certo punto, arrivano i momenti in cui le parole e i disegni non
contano. In cui, invece, serve esclusivamente vincere. Non importa come.
Chiunque si pari di fronte. Generalmente, peraltro, questi sono momenti che arrivano
in fondo al viale, davanti ad un bivio. Di qua il destino che si accartoccia
sotto il peso della colpevolezza: e che, nel caso specifico, si chiama
retrocessione. O serie D. Ovvero, la reimmersione nell’universo dei dilettanti:
di nome, più che di fatto. Di là, la
redenzione della serie C, quella unica, quella tutta nuova pensata dalla Lega e
da un calcio che prova a sopravvivere a se stesso. Cioè, la cancellazione di
ogni peccato accumulato in corsa, sin dagli albori della stagione. E, nel
mezzo, quella lotteria degli spareggi di fine corsa: che si chiamano ufficialmente
playoff e che, questa volta, sono contemporaneamente playoff. Quella lotteria
un po’ bizzarra alla quale il Martina, ad un certo punto, si era persino
ribellato, provando ad ottenere di meglio. E alla quale, infine, proprio
nell’ultima settimana si era concettualmente affezionato: un po’ perché
l’ottavo posto (l’ultimo utile alla promozione diretta) era ormai blindato dal
Lamezia. E un po’ perché la ricorsa recente ha offerto i numeri giusti per
pensare ad una scappatoia un po’ scomoda, ma ugualmente utile (a fine playout,
la migliore passa in C e le altre tre affondano in D: mai accaduto, su questi
campi). Vittoria deve essere, allora: senza dubbio alcuno. E vittoria, alla
fine, è stata. E non importa se la gioia si libera oltre il novantesimo, pochi
secondi dopo aver incassato il sigillo del pari: che l’avversario non cerca, ma
trova. Quasi per sbaglio. Magari, senza troppo gradire. La formazione di Tommaso
Napoli, a centottanta minuti dalla conclusione, s’imbatte nel Cosenza già
promosso, sparring partner che
s’impegna per obbligo, non per convinzione. Approccia senza foga, si nutre
dell’accondiscendenza altrui, ma non sfonda. Segnare dovrebbe diventare
l’operazione più naturale, ma la manovra s’inaridisce e un certo fastidio
cresce. Il lavoro di Montalto e Arcidiacono, prima degli altri, è però premiato
dalla costanza e dall’istinto del bisogno: il gol dell’artigliere siciliano
sembra promettere la prosecuzione dell’avventura. Tutto, invece, si complicherà
più tardi, a fase di recupero già avviata. Per appianarsi magicamente qualche
istante più avanti. Perché così è scritto. E così deve essere. Attenzione,
però: non cede il Martina e non cede neppure la concorrenza. La posizione di
vantaggio – certo - resiste, ma non basta ancora. Traducendo, i playout e le
speranze di salvezza vanno ancora guadagnati: all’ultimo chilometro si supera
lo Stretto e si rende visita al Messina, un’altra delle otto squadre già
qualificate al prossimo campionato di terza serie. In certi frangenti, i favori
della provvidenza sono particolarmente graditi. Di contro, un po’ di rammarico
affiora ugualmente, emerge. L’obiettivo dell’ottava piazza, creduta tra marzo
ed aprile un traguardo oggettivamente raggiungibile, svanisce nello spazio di
due settimane e il disappunto è corposo. Alla fine, cioè, pesano le occasioni
perdute, i punti sperperati.. Incide quel gap
di partenza vincolante: che un organico ampiamente rinnovato e qualitativamente
migliorato dopo il girone di andata aveva tuttavia esorcizzato. E non paga
neppure quella consapevolezza di essere diventati all’altezza del compito, in
coda ad una partenza affaticata. Potremmo sbagliarci, ma ipotizziamo lo stesso:
forse è proprio quella sicurezza acquisita a metà del cammino a generare nel
gruppo un pizzico di supponenza o di rilassamento. Di sicuro, la seconda
versione del Martina semina senza raccogliere, lasciando qualcosa per strada. E
quel qualcosa è decisivo: il progetto di base non si evolve, non si compie. Nel
percorso, ci sono le premesse: ma difetta la conclusione. E la sensazione che
resta è quella di un’operazione incompiuta. Che soltanto il primo posto nel
girone finale potrà scacciare.
lunedì 28 aprile 2014
Lecce, manca l'acuto finale
L’impresa è esagerata, ma la speranza deve reggere sino in
fondo. L’ultimo atto della regular season nasconde un obbligo: vincere e
sperare. Che le avversarie realizzino poco o niente e che poi, la domenica
successiva, si accontentino di un pari nello scontro diretto. Finendo per
avvantaggiare, in qualche modo, la terza concorrente che, per l’occasione,
riposa. E che, dunque, non potrà incrementare la propria classifica. Diciamo
pure che, da una certa angolazione, non va benissimo: il Frosinone si libera
agevolmente, in casa, dell’Aquila. Ma neppure malissimo: il Perugia, a Salerno,
pareggia. Solo che il Lecce, a Pisa, stecca. Disperdendo la possibilità di
spareggiare con gli umbri e autoinfliggendosi la punizione dei playoff con una
settimana di anticipo. Niente primo posto: nemmeno per sette giorni. Ma neppure
seconda piazza e, quindi, niente pole
position nella griglia degli spareggi di maggio. La formazione di Lerda,
invece, si ritrova terza della classe: condizione, questa sì, inattaccabile. In
Toscana, del resto, l’avversario è immediatamente più pronto. Il gol che decide
il match piove abbastanza presto, dopo appena undici minuti. Il Lecce non saprà
rimediare: Miccoli ci prova e spreca il pari, poi il tecnico decide di
avvicendarlo con Zigoni. Da qui in poi, la squadra si spegne, rassegnandosi
alla crudezza della realtà. Bogliacino e compagni si fermano un attimo prima
del traguardo: pagando, forse, lo stress accumulato in una rincorsa
dispendiosa. Soffrendo, una volta di più, la pressione dell’evento. Fallendo,
così come in occasione dell’ancora recente sfida con il Perugia, l’approccio ad
una gara troppo delicata. E, probabilmente, inchinandosi anche di fronte al
fattore psicologico: il Lecce, magari, non ci crede sino in fondo. Oppure no:
perché è così, in fondo, che doveva andare. Qualche giorno di silenzi e di
riposo, allora, serviranno ad assorbire delusione e rabbia. Quindi, la giostra
dei playoff. Crederci, questa volta, è assolutamente necessario.
mercoledì 16 aprile 2014
Grottaglie, crollo verticale
C’era una squadra incerta ed ingenua, minacciata da complicazioni
societarie stringenti, in difficoltà palese sull’erba amica, immatura nella
gestione dei passaggi fondamentali: era il Grottaglie di Alberto Bosco,
esautorato a metà del cammino, prima della rivisitazione tecnica e del
consolidamento del club. Così, Giacomo Pettinicchio ereditava una classifica
affaticata e un organico migliorato negli uomini e arricchito numericamente: e,
con le energie nuove, l’esperienza del nocchiero e il lavoro, lievitavano la
produzione di gioco, l’abitudine al risultato e, dunque, le speranze. Il nuovo
Grottaglie, lentamente, si arrampicava sulla classifica, avvicinandosi al
traguardo. Rifiutando idealmente persino la prospettiva dei playout, così
scomodi e misteriosi. Rivolgendosi, in seconda persona, anche alle big del torneo. Pur senza ottenere,
tante volte, la moneta che avrebbe pienamente meritato. Ecco, proprio in questo
segmento temporale, segnato da un’evoluzione strutturale e tecnica, cominciava
invece a propagarsi il male: figlio legittimo di un’involuzione mentale, ovvero
psicologica. Contraccolpo violento, verrebbe da dire: la scarsissima resa, a
fronte del buon calcio espresso, finiva per spegnere la squadra, velocemente. Proprio
mentre il calendario si addolciva. Proprio mentre la concorrenza si
risvegliava. Guardare la classifica, in questo momento, impaurisce: il
Gladiator, ultimo, è appena un passo indietro. La Puteolana ha appena
formalizzato il sorpasso. Qualche scontro diretto (a Metaponto, in casa con il
Vico, sul sintetico di Manfredonia) è transitato invano, lasciando in dote
appena un punto: che, poi, è l’unica e insufficiente soddisfazione degli ultimi
due mesi. E i playout, alla fine, sono addirittura un’incombenza niente affatto
scontata, eppure da salutare volentieri. L’ultimo capitolo, in terra sipontina,
illustra sapientemente il crollo verticale. E fotografa le fatiche di una
squadra che non sa più reagire alle avversità. Schiacciata, probabilmente, dalla
sua stessa (e genetica) fragilità. Che l’ordine tattico e la manovra più
spigliata, sicuramente, hanno occultato per un po’: senza, tuttavia, annientare.
E scoprendo il lato più intimo e debole del carattere del Grottaglie: quel
carattere che la società, adesso, pretende. Ringhiando.
martedì 15 aprile 2014
Lecce, provarci è un diritto
La lunga rincorsa irrobustisce i muscoli e gli appetiti del Lecce, che sull'erba di casa si
scrolla pure lo spessore del Frosinone, sin qui leader di un campionato che ancora non conosce nitidamente il suo
stesso destino. Due a zero secco, legittimato dagli eventi, di forza e rabbia,
di decisione e fame. E’ il successo del sorpasso in graduatoria, che però non significa prima
piazza. Ne approfitta, piuttosto, il Perugia di Camplone, nuovo favorito numero
uno al salto di categoria senza passare per la pericolosa via dei playoff. La
gente di Lerda si accoda, un punto dietro. E sembra in grado di poter ruggire
sino in fondo, di dire la sua sino all’ultimo minuto. Ma il calendario è nemico
e si beffa del Lecce, che può contare su una gara in meno, in confronto alla
concorrenza: il turno di riposo, proprio all’ultima giornata, è un ostacolo
troppo alto per essere bypassato con nonchalance. Nella domenica della
verità, cioè, la realtà si racconta per quella che è: magari, la rincorsa può
regalare il miglior piazzamento nella griglia degli spareggi di fine stagione. Ma
non di più. Anche se il pallone non è scienza esatta e, in determinate
situazioni, tutto può accadere. Tanto che, nel Salento, la religione impone di
confidare ancora e di battersi sino a quando la matematica spiegherà l’evidenza.
Ragionevolmente, però, la storia della promozione diretta sembra già scritta e
il Lecce non fa parte di questa storia. La regular
season si esaurisce troppo presto. O, meglio, la squadra ha guadagnato
sostanza e continuità troppo tardi. Ma il futuro prossimo, oggi, non fa troppa
paura. Gode di buona salute, questo Lecce. Le gambe stanno reggendo: non si
spiegherebbero, del resto, un rush
finale così sciolto e l’alta produttività degli ultimi tempi. E, se il fiato
non manca, di solito funziona anche la testa: guadagnarsi l’accesso alla B in
seconda battuta non è poi così proibitivo. Provarci è un diritto, più che un
dovere.
lunedì 14 aprile 2014
Più Brindisi che Turris, ma non basta
Ci sono situazioni che si evolvono. E squadre che rientrano nel pieno del
gioco, nel vortice della battaglia. Apparse, ad un certo punto, ragionevolmente
lontane dalla storia di un campionato che stringe e che, domenica dopo
domenica, seleziona sempre più e, invece, ancora arruolabili nel discorso dei
playoff. Cioè di quello strumento utile per assicurarsi, chissà, una promozione
di scorta. Il Brindisi è una di quelle squadre ripescate dal gioco un po’
perverso del girone appulocampano di quinta serie. E lo è pure la Turris: che, anzi, la
mancanza di continuità delle altre big
del torneo ha saputo recuperare persino nella corsa alla prima piazza. Da non
credere: ma vero. Turris e Brindisi si salutano a Torre del Greco: e non c’è
soluzione all’eventuale sconfitta. Per entrambi. Concetto sùbito assai chiaro
ai campani, in gol molto presto, dopo otto minuti. Forse più pronti, o più
spendibili nell’immediato, i corallini creano movimento all’interno dell’area
adriatica, mentre l’apparato difensivo della formazione di Chiricallo si blocca
ed assiste alla scena del vantaggio della gente di casa. L’atteggiamento di
partenza di Gambino e soci è, nello specifico, difettoso: ancora una volta,
peraltro. Ma, di lì in poi, c’è più Brindisi che Turris: sin dalla metà della prima
frazione di gioco, si intravede una certa frenesia. E pure una certa dose di
coraggio: mancata troppe volte, invece, nelle trasferte precedenti a questa.
Kamano rintuzza, Pollidori spinge e Ancora sfugge: solo che il sigillo del pari
non arriva. Il rovescio, l’ennesimo rovescio lontano dall’erba del Fanuzzi, finisce così per complicare il
progetto: anche i playoff si allontanano sensibilmente, malgrado non sia ancora
ufficialmente finita. Appena chiamato a spendersi un po’ più e un po’ meglio,
però, l’organico si è puntualmente inchiodato: e questa è una verità
inconfutabile. Al di là dei condottieri (con Ciullo e con il nuovo coach) e dei
moduli utilizzati sin qui. Segno inequivocabile di un gruppo mai maturato sino
in fondo, diciamo pure incompiuto. Lo pensa patron Flora, lo sottoscrive
Chiricallo, lo sospettiamo tutti, da tempo. Adesso, a traguardo virtualmente
compromesso, possiamo ufficializzarlo: senza timore di smentita. Il campionato,
in occasioni come queste, non mente.
mercoledì 9 aprile 2014
Barletta, un anno sprecato. In tutti i sensi
Non è un torneo particolarmente affascinante, quello della terza serie
nazionale. E conosciamo ampiamente le cause alla radice dell’effetto:
retrocessioni bloccate, sequenza massiccia di match inutili, caso-Nocerina e
altro ancora. Vero, la rincorsa del Lecce alla prima piazza, ad esempio, offre
interesse nuovo e adrenalina di riserva. E la corsa ai playoff è sempre viva. Ma
queste sono storie che animano la zona più nobile della classifica e che, di
conseguenza, non coinvolgono tutta la popolazione affezionata al girone meridionale
della C1. E, infatti, adesso ci preme di parlare dell’altra metà del mondo e,
innanzi tutto, del Barletta. Che su queste colonne – colpevolmente, magari –
abbiamo un po’ trascurato, in questi ultimi tempi. Primo, perché – appunto – questo
è un campionato senza anima, che ci affretteremo a dimenticare. E, secondo,
perché quello che avevamo da dire, sostanzialmente, è stato già scritto. Il
campionato, cioè, avrebbe dovuto rappresentare (per la società e, dunque, per
la piazza) la palestra ideale in prospettiva futura. Una palestra in cui
guardarsi attorno, preparare la nuova stagione e, soprattutto, costruire le
basi per un futuro un po’ più saldo. Puntando, ad esempio, sulla gioventù:
magari proveniente dal proprio settore giovanile. Operazione, per la verità, in
parte riuscita (parliamo di Guglielmi, ovviamente). Questo torneo, per capirci,
avrebbe dovuto rappresentare il segmento di transizione tra ieri e domani.
Anche se ricordiamo benissimo gli appetiti dell’ambiente e certe dichiarazioni
di massima, indirizzate verso la partecipazione ai playoff. Che, tuttavia, la
caratura dell’organico aveva – sin dall’avvio della stagione, cioè la Coppa Italia – escluso. Diciamo
così, allora: a Barletta questi mesi sono stati utilizzati male. Anche perché
un’ambiguità di fondo ha finito con il corrompere i rapporti tra il club e la
sua gente, da sùbito. Perché il presidente Tatò si è dimesso presto, stanco di
assalti verbali e contestazioni. Perché il numero uno della società si è
defilato, rimanendo comunque ai margini: un po’ dentro, un po’ fuori. Perché la
fiducia tra le parti si è incrinata, per sempre. Perché la distanza tra l’ormai
ex allenatore (Nevio Orlandi, silurato da poco) e la tifoseria si è allargata
eccessivamente, nel tempo. Perché la differenza di pensiero tra il
plenipotenziario Martino (esautorato pure lui) e l’ambiente si è deteriorata
assai. E per tanti altre motivazioni. Certo: il pubblico del Puttilli e la città, in generale, hanno
sopportato a fatica la programmazione minima. O, se preferite, mal digerito il
cambio in corsa di un progetto mai totalmente chiaro. Traditi, probabilmente,
da quel vortice di umori che, spesso, fa deragliare qualsiasi pianificazione.
Però, e uno dei problemi più insidiosi è proprio questo, brucia – e non poco –
la prospettiva o la certezza dell’umiliazione. Umiliazione, ad esempio, sono
quei sei gol sofferti ultimamente di fronte al Benevento, che poi hanno causato
la deflagrazione in un contesto già precario, sintetizzato con una
contestazione popolare rumorosissima e, infine, il defenestramento di Orlandi e
Martino (a proposito: per stanchezza o per altro, la società ha gestito la
situazione con qualche esitazione). Mentre, sullo sfondo, si agitavano (e si
agitano ancora) gli spettri del fallimento: perché il club è sempre aperto a
nuovi investitori (a costo zero, ripete Tatò), ma i possibili acquirenti
dimenticano di formalizzare una proposta concreta. Dall’umiliazione, intanto,
nasce il disagio. Dal disagio, sfociano i rancori. E, dai rancori, sboccia
l’intransigenza della parte più calda del tifo. Quello che è accaduto proprio
domenica, cioè, è assolutamente al di fuori del normale e della logica. Il
Barletta gioca (e perde, ma non è una novità) a Pontedera. Nel corso della
gara, si infortuna e perde conoscenza il capitano, Fabrizio Di Bella (diagnosi:
trauma cranico): e, allora, proprio dalla curva occupata dai sostenitori del
Barletta, si alza per tre volte un coro becero, che al ragazzo augura il
peggio. E’ il segnale di un punto di non ritorno già toccato. Ed è,
soprattutto, l’ufficializzazione di un anno sprecato. Alla fine del quale,
invece di raccogliere qualcosa, occorrerà seminare. Nella migliore delle
ipotesi, ovviamente.
martedì 8 aprile 2014
De Luca e l'improrogabile epilogo
Il derby con il Taranto è perso. E, con il derby, anche ogni oggettiva
possibilità di promozione. Almeno quella in prima battuta. Perché, se non
altro, la battaglia per inserirsi nella griglia dei playoff continua. Malgrado,
adesso, i desideri del Monopoli non siano affatto blindati (Francavilla e
Brindisi inseguono e sperano ancora). O tutelati: né dal calendario (gli
adriatici, ad esempio, domenica riposano e poi incontreranno il Marcianise), né
dal nuovo profilo psicologico del gruppo, adesso obbligato ad assorbire in
fretta l’ultima mazzata e, quindi, a reagire. Sì, il derby si consuma senza gloria
e l’ambiente monopolitano deglutisce molto male il responso del campo.
Scagliandosi soprattutto sul condottiero della squadra, ritenuto il
responsabile principale della prima caduta stagionale al Veneziani: per la formazione proposta all’inizio della sfida, più
che per l’atteggiamento speso sul campo nella seconda parte della gara. Claudio
De Luca, oltre tutto, al novantesimo dribbla l’appuntamento rituale sotto la
curva. E il particolare non sfugge agli affezionati più intransigenti: anche
perché l’episodio si nutre di qualche precedente che ha contribuito, nel
recente passato, ad allontanare le posizioni del tecnico di Castellana da quelle della tifoseria. Che, peraltro, tributa
alla squadra applausi sinceri. Questo passaggio, in realtà, ratifica lo
sgretolamento di un rapporto già abbondantemente deteriorato. E che la
situazione caotica venutasi a creare dopo la partita di Brindisi ha abbruttito.
De Luca, inoltre, finisce per scontare le asperità di altre contingenze, come
il diverbio avvenuto proprio domenica
scorsa in tribuna tra un suo parente stretto e alcuni supporters. Di certo, tuttavia, nella mattina di ieri si sparge
la voce delle sue dimissioni: ma chi conosce un po’ il carattere del tecnico,
fatica a crederci. Di fatto, però, la società decide di intervenire
compiutamente: e, dal summit serale,
sempre di ieri, scivola una notizia
abbondantemente prevista. Le strade si separano. E, ufficialmente, si tratta
proprio di dimissioni: anche se resta forte la sensazione di una motivazione di
comodo. Esonero oppure no, comunque, cambia poco. L’epilogo, alla piazza, è
gradito. Forse pure inutile, ma forse no. Perché l’incompatibilità ambientale
si è fatta, giorno dopo giorno, sempre più pressante. Perché, se ben sfruttato,
il cambio di panca (arriva, nel frattempo Elio Cocco, sin qui responsabile
della formazione Juniores) potrebbe
inaugurare, in anticipo sui tempi, la pianificazione della stagione che verrà.
E soprattutto perché, ad un mese dal traguardo, il club comincia seriamente a
temere anche l’esclusione dall’appendice dei playoff: un accadimento che,
oggettivamente, si trascinerebbe appresso il sapore del fallimento.
Foggia, è festa
Giglio utilizza come sa e come deve il pallone giusto, il Poggibonsi si
arrende e il Foggia acquisisce la certezza dell’aritmetica. Adesso,
l’ammissione alla futura C unica è ufficiale. I xxx punti, ormai, sono inattaccabili:
con tre giornate di anticipo. La classifica potrà consolidarsi ancora (la Casertana e il Teramo viaggiano
una sola lunghezza sopra), oppure deteriorarsi un po’ (il Messina è due punti
dietro, l’Ischia tre): nella peggiore o nella migliore delle ipotesi, però, non
cambierà granché. Allo Zaccheria c’è
atmosfera di festa e la festa può cominciare. La formazione di Padalino si
affretta ad archiviare la pratica, copre il campo con decisione, detta il gioco
e i ritmi, governa palla e partita e, infine, colpisce. L’opposizione dei
toscani è ampiamente gestibile e il risultato non traballa mai. Tre punti e
via, la tensione può sciogliersi nella grazia della promozione. Il fallimento e
l’affossamento tra i dilettanti sembrano spettri lontani. Nello spazio di dieci
mesi, in Capitanata si sorride per la seconda volta di sèguito. Prima il
ripescaggio in Seconda Divisione, escamotage
burocratico per aggirare un’altra stagione di confinamento in quinta serie e
per dribblare il fastidio di concorrere, quest’anno, con troppe pretendenti al
salto di categoria. E, quindi, l’affermazione sul campo: probabilmente, meno
faticosa del previsto, eppure non meno dispendiosa, in termini di investimento
e di energie nervose. Quanto basta per recuperare il terreno perduto dopo il
fallimento del vecchio club di Casillo e per ricollocare il blasone in un
angolo meno angusto. Passando per un resettaggio malinconico nelle modalità, ma
tecnicamente utile. Il Foggia, in meno di due anni, è sostanzialmente risorto,
azzerando i passivi di un tempo e riacquistando la dignità. Ricostruendosi
un’immagine e impalcando le fondamenta per affrontare un futuro più solido. Ma,
soprattutto, ricostruendo i rapporti con la città e la tifoseria. Non senza
attraversare qualche momento di smarrimento e di fibrillazione. Non senza
temere di inciampare sugli ostacoli di sempre, che sono propri dell’espressione
calcistica di una realtà socialmente confusa ed economicamente debole. Non
senza aggirare con astuzia qualche difficoltà di percorso: puntando anche sul
coinvolgimento concreto della tifoseria, nel momento di maggior bisogno. Come
quando servì promuovere una sorta di colletta, per garantirsi la fidejussione
da allegare alla domanda di ripescaggio. Al momento in cui, cioè, il club
decise di far sottoscrivere alla sua gente l’abbonamento per tre campionati di
fila, introitando un po’ di contante. E, infine, non senza ricorrere al
sacrificio personale dei suoi finanziatori (Franco Lo Campo, immediatamente in
coda al match di domenica, ha quantificato in un milione le uscite certificate
per guadagnarsi la terza serie). Foggia e il pallone, intanto, si
riappacificano. Stringendosi attorno ad un allenatore che, nella foggianità,
sembra aver coniato il proprio marchio di fabbrica e ad un organico più pratico
che illusorio, compatto ed affamato, motivato e sostanzialmente costante, nel
rendimento. Malgrado un avvio di campionato affaticato e osteggiato da amnesie
difensive e dai tanti sistemi di gioco che si sono inseguiti. E, perché no,
abbracciando l’intero organigramma societario, che - anche a dispetto delle
apparenze - nel doppio salto ha sempre profondamente creduto. Puntando tutto (e
rischiando non poco) sull’onerosa pratica di ripescaggio, l’estate scorsa.
Operazione, quella, dai risvolti oscuri e pericolosi: ma, in definitiva, anche
e soprattutto una scommessa vinta sugli scettici, noi compresi.
lunedì 7 aprile 2014
Il Taranto vola, il Monopoli s'inchioda
L’incastro dei confronti diretti è un puzzle
goloso che lascia godere il girone H della quinta serie. Monopoli-Taranto è un
altro tassello di questa lunga storia, ma non l’ultimo. Il futuro della gente
di De Luca e della formazione di Papagni, ma pure della larga concorrenza,
passa da questi novanta minuti. Sugli
spalti la gente risponde, dribblando vincoli di sicurezza e agibilità parziale
della struttura. Jonici debilitati dalla giustizia sportiva (Molinari, Ciarcià
e Clemente fermati per un turno), adriatici immutati nella sostanza e negli
uomini (ancora fuori Pedalino e Corvino, mediana nuovamente rafforzata da un
difensore d’estrazione come Castaldo, sin qui assolutamente convincente nel
nuovo ruolo): e si parte. Con circospezione, ma si parte. La manovra del
Monopoli ci mette un po’ a sgrossarsi, ma lentamente si assicura più quantità e
intensità e, nella fase centrale della prima parte del match, si dota di
maggior qualità. Montaldi, vestito da prima punta, esegue i movimenti giusti e,
ai suoi fianchi interagiscono con profitto Di Matera e
Camporeale. L’assenza di un artigliere di peso, che la tifoseria non decodifica
con favore, sembra serenamente bypassata. Il Taranto si copre diligentemente,
difendendosi a cinque: le esitazioni spuntano dai limiti dei singoli, più che
dai difetti del reparto. Comunque, l’assetto di presidio tiene. Le ripartenze,
tuttavia, sono puntuali: anche se necessita maggiore volontà di pungere, perché
un pareggio serve a poco. Lanzillotta e compagni finiscono per spendere
qualcosa, invano. La brillantezza, cioè, si eclissa abbastanza presto. E, a
fronte di un calo di lucidità, il calcio prodotto si sporca di falli e
ammonizioni. Ed è proprio adesso che Papagni, tecnico di buon senso ed
esperienza, intuisce le difficoltà dell’avversario, leggendo bene nelle pieghe
della gara e rivedendo l’assetto di gioco. Muwana avanza in mezzo al campo,
Properi si accentra in terza linea e lo scacchiere si trasforma in un 4-4-2
pratico e furbo. Irrobustito, ma anche più reattivo, il Taranto cresce prima
dell’intervallo e, agli albori della ripresa, coglie il vantaggio con Balistreri, monetizzando
la prima vera (ed unica) occasione del match. Attendere il momento e colpire: certe volte,
basta solo questo. Il Monopoli, allora, si sgonfia e si appiattisce.
L’iniezione di uomini a forte attitudine offensiva (Pedalino e Corvino) non
paga nell’immediato. Il forcing si
materializza solo più in là, prima dei titoli di coda: attorno al novantesimo,
peraltro, Montaldi firma il pari, ma l’intervento arbitrale gli invalida la
conclusione con motivazioni oscure. Quindi, lo slancio generoso del portiere
Mirarco si traduce in una traversa beffarda. Vince il Taranto, senza sottrarre
nulla, al culmine di una prestazione priva di orpelli, vergata dal sacrificio e
dalla scaltrezza. Che vale, innanzi tutto, la vetta del campionato, tuttora
illeggibile. Perde il Monopoli, scomparso nella parte più delicata di una
partita da non fallire e, invece, decisiva. Ormai fuori dai giochi per la prima
piazza. Con un dolore da elaborare e la rabbia popolare da addomesticare. E con
un tecnico, adesso, troppo distante dalle posizioni della tifoseria. Il fosso
scavato tra De Luca e l’ambiente è diventato, nel tempo, un burrone. Perché un
buon campionato, questa volta, non riuscirà a lenire gli appetiti di una
squadra costruita per vincere. Perché, nel pallone, chi non vince finisce
irrimediabilmente per perdere. E perché il coraggio, in fondo, è una qualità che
la gente finisce sempre per apprezzare, al di là dei risultati. Quel coraggio mancato
troppe volte, lontano dal Veneziani.
E, affermano con veemenza i detrattori, anche ieri, sull’erba di casa.
domenica 6 aprile 2014
Manfredonia, il trend di sempre
Se la piazza sbuffa, s’impressiona, si agita e preme, il club si difende
e si protegge. Dunque, si adatta. E cede alle pressioni. Un po’ quello che,
recentemente, è accaduto a Manfredonia, microcosmo in crisi dopo un avvio di
stagione complessivamente incoraggiante. E, successivamente, angustiato dai
mali di stagione e di solvibilità. Che, di fatto, hanno consigliato una
politica di contenimento dei costi di gestione, tradotta a metà del cammino in
una rivisitazione del materiale umano a disposizione del coach. La rivoluzione
di dicembre, in sostanza, ha rimodellato l’organico, sottraendo al tecnico
Cinque qualche certezza accatastata nel percorso, la solidità di base della
squadra e qualche colpo utile nei momenti più ardui. Nella manche di ritorno, cioè, il Manfredonia si è un po’ perso, senza
rincontrarsi mai compiutamente. Scalando dalle posizioni a ridosso
dell’aristocrazia del girone appulocampano di serie D a quelle meno
rassicuranti del quartiere playout. In cui, ora, occorre misurarsi con
avversarie psicologicamente già ben adattate alla battaglia, rafforzate a
lavori in corso e, evidentemente, più motivate. Mentre, sul golfo, il timore si
è già abbondantemente diffuso. Cinque, come molto spesso accade in casi come questo,
in realtà ha intanto già pagato con l’esonero, planato meno di due settimane
fa. Squadra un po’ ferma, un po’ molle, impaurita. E ambiente riscaldato:
quanto basta per convincere il club che qualche soluzione andava pur
perseguita. Al suo posto si è seduto Max Vadacca, fantasista di un tempo (anche
a Manfredonia) e allenatore alla prima proposta importante. Subito castigato,
all’esordio, in casa, dal San Severo: in un derby che è riuscito ad invertire
posizioni e prospettive di vinti e vincitori (chi inseguiva, adesso si fa
inseguire e viceversa). E, sei giorni dopo (cioè ieri, nell’anticipo), premiato
nella trasferta di Pozzuoli. Dove il Manfredonia ha, se non altro,
riconquistato ritmo ed energie mentali, sfruttando la cattiva gestione di gara
della Puteolana e il carattere ammorbidito di una squadra, quella campana,
assolutamente irriconoscibile. Mettendoci, tuttavia, qualcosa di proprio,
almeno sul piano dell’intensità e della sostanza. Nonostante i sei under schierati tutti assieme dall’inizio
, tra cui il ’97 Terminello (la felice esperienza maturata con Granatiero, peraltro
già passato alle giovanili della Juve, spinge ad insistere). Anche se poi, facendo due conti, si scopre
quello che i numeri ci avevano lasciato intuire, già all’epoca del governo
Cinque: il Manfredonia sa cautelarsi e poi ripartire con perizia, ma zoppica
appena è lecito attendersi di più in fase di possesso, ovvero quando la logica
obbliga il modulo ad impossessarsi del match. I dodici punti soltanto
guadagnati al Miramare e i diciannove
collezionati lontano da casa spiegano a sufficienza: tanto da sospettare che il
problema è strutturale. E che il cambio di gerenza tecnica, al di là delle
competenze di Vadacca e della bontà del lavoro che il nuovo allenatore saprà
applicare, era probabilmente solo una necessità di routine.
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