Non è un torneo particolarmente affascinante, quello della terza serie
nazionale. E conosciamo ampiamente le cause alla radice dell’effetto:
retrocessioni bloccate, sequenza massiccia di match inutili, caso-Nocerina e
altro ancora. Vero, la rincorsa del Lecce alla prima piazza, ad esempio, offre
interesse nuovo e adrenalina di riserva. E la corsa ai playoff è sempre viva. Ma
queste sono storie che animano la zona più nobile della classifica e che, di
conseguenza, non coinvolgono tutta la popolazione affezionata al girone meridionale
della C1. E, infatti, adesso ci preme di parlare dell’altra metà del mondo e,
innanzi tutto, del Barletta. Che su queste colonne – colpevolmente, magari –
abbiamo un po’ trascurato, in questi ultimi tempi. Primo, perché – appunto – questo
è un campionato senza anima, che ci affretteremo a dimenticare. E, secondo,
perché quello che avevamo da dire, sostanzialmente, è stato già scritto. Il
campionato, cioè, avrebbe dovuto rappresentare (per la società e, dunque, per
la piazza) la palestra ideale in prospettiva futura. Una palestra in cui
guardarsi attorno, preparare la nuova stagione e, soprattutto, costruire le
basi per un futuro un po’ più saldo. Puntando, ad esempio, sulla gioventù:
magari proveniente dal proprio settore giovanile. Operazione, per la verità, in
parte riuscita (parliamo di Guglielmi, ovviamente). Questo torneo, per capirci,
avrebbe dovuto rappresentare il segmento di transizione tra ieri e domani.
Anche se ricordiamo benissimo gli appetiti dell’ambiente e certe dichiarazioni
di massima, indirizzate verso la partecipazione ai playoff. Che, tuttavia, la
caratura dell’organico aveva – sin dall’avvio della stagione, cioè la Coppa Italia – escluso. Diciamo
così, allora: a Barletta questi mesi sono stati utilizzati male. Anche perché
un’ambiguità di fondo ha finito con il corrompere i rapporti tra il club e la
sua gente, da sùbito. Perché il presidente Tatò si è dimesso presto, stanco di
assalti verbali e contestazioni. Perché il numero uno della società si è
defilato, rimanendo comunque ai margini: un po’ dentro, un po’ fuori. Perché la
fiducia tra le parti si è incrinata, per sempre. Perché la distanza tra l’ormai
ex allenatore (Nevio Orlandi, silurato da poco) e la tifoseria si è allargata
eccessivamente, nel tempo. Perché la differenza di pensiero tra il
plenipotenziario Martino (esautorato pure lui) e l’ambiente si è deteriorata
assai. E per tanti altre motivazioni. Certo: il pubblico del Puttilli e la città, in generale, hanno
sopportato a fatica la programmazione minima. O, se preferite, mal digerito il
cambio in corsa di un progetto mai totalmente chiaro. Traditi, probabilmente,
da quel vortice di umori che, spesso, fa deragliare qualsiasi pianificazione.
Però, e uno dei problemi più insidiosi è proprio questo, brucia – e non poco –
la prospettiva o la certezza dell’umiliazione. Umiliazione, ad esempio, sono
quei sei gol sofferti ultimamente di fronte al Benevento, che poi hanno causato
la deflagrazione in un contesto già precario, sintetizzato con una
contestazione popolare rumorosissima e, infine, il defenestramento di Orlandi e
Martino (a proposito: per stanchezza o per altro, la società ha gestito la
situazione con qualche esitazione). Mentre, sullo sfondo, si agitavano (e si
agitano ancora) gli spettri del fallimento: perché il club è sempre aperto a
nuovi investitori (a costo zero, ripete Tatò), ma i possibili acquirenti
dimenticano di formalizzare una proposta concreta. Dall’umiliazione, intanto,
nasce il disagio. Dal disagio, sfociano i rancori. E, dai rancori, sboccia
l’intransigenza della parte più calda del tifo. Quello che è accaduto proprio
domenica, cioè, è assolutamente al di fuori del normale e della logica. Il
Barletta gioca (e perde, ma non è una novità) a Pontedera. Nel corso della
gara, si infortuna e perde conoscenza il capitano, Fabrizio Di Bella (diagnosi:
trauma cranico): e, allora, proprio dalla curva occupata dai sostenitori del
Barletta, si alza per tre volte un coro becero, che al ragazzo augura il
peggio. E’ il segnale di un punto di non ritorno già toccato. Ed è,
soprattutto, l’ufficializzazione di un anno sprecato. Alla fine del quale,
invece di raccogliere qualcosa, occorrerà seminare. Nella migliore delle
ipotesi, ovviamente.