mercoledì 9 aprile 2014

Barletta, un anno sprecato. In tutti i sensi

Non è un torneo particolarmente affascinante, quello della terza serie nazionale. E conosciamo ampiamente le cause alla radice dell’effetto: retrocessioni bloccate, sequenza massiccia di match inutili, caso-Nocerina e altro ancora. Vero, la rincorsa del Lecce alla prima piazza, ad esempio, offre interesse nuovo e adrenalina di riserva. E la corsa ai playoff è sempre viva. Ma queste sono storie che animano la zona più nobile della classifica e che, di conseguenza, non coinvolgono tutta la popolazione affezionata al girone meridionale della C1. E, infatti, adesso ci preme di parlare dell’altra metà del mondo e, innanzi tutto, del Barletta. Che su queste colonne – colpevolmente, magari – abbiamo un po’ trascurato, in questi ultimi tempi. Primo, perché – appunto – questo è un campionato senza anima, che ci affretteremo a dimenticare. E, secondo, perché quello che avevamo da dire, sostanzialmente, è stato già scritto. Il campionato, cioè, avrebbe dovuto rappresentare (per la società e, dunque, per la piazza) la palestra ideale in prospettiva futura. Una palestra in cui guardarsi attorno, preparare la nuova stagione e, soprattutto, costruire le basi per un futuro un po’ più saldo. Puntando, ad esempio, sulla gioventù: magari proveniente dal proprio settore giovanile. Operazione, per la verità, in parte riuscita (parliamo di Guglielmi, ovviamente). Questo torneo, per capirci, avrebbe dovuto rappresentare il segmento di transizione tra ieri e domani. Anche se ricordiamo benissimo gli appetiti dell’ambiente e certe dichiarazioni di massima, indirizzate verso la partecipazione ai playoff. Che, tuttavia, la caratura dell’organico aveva – sin dall’avvio della stagione, cioè la Coppa Italia – escluso. Diciamo così, allora: a Barletta questi mesi sono stati utilizzati male. Anche perché un’ambiguità di fondo ha finito con il corrompere i rapporti tra il club e la sua gente, da sùbito. Perché il presidente Tatò si è dimesso presto, stanco di assalti verbali e contestazioni. Perché il numero uno della società si è defilato, rimanendo comunque ai margini: un po’ dentro, un po’ fuori. Perché la fiducia tra le parti si è incrinata, per sempre. Perché la distanza tra l’ormai ex allenatore (Nevio Orlandi, silurato da poco) e la tifoseria si è allargata eccessivamente, nel tempo. Perché la differenza di pensiero tra il plenipotenziario Martino (esautorato pure lui) e l’ambiente si è deteriorata assai. E per tanti altre motivazioni. Certo: il pubblico del Puttilli e la città, in generale, hanno sopportato a fatica la programmazione minima. O, se preferite, mal digerito il cambio in corsa di un progetto mai totalmente chiaro. Traditi, probabilmente, da quel vortice di umori che, spesso, fa deragliare qualsiasi pianificazione. Però, e uno dei problemi più insidiosi è proprio questo, brucia – e non poco – la prospettiva o la certezza dell’umiliazione. Umiliazione, ad esempio, sono quei sei gol sofferti ultimamente di fronte al Benevento, che poi hanno causato la deflagrazione in un contesto già precario, sintetizzato con una contestazione popolare rumorosissima e, infine, il defenestramento di Orlandi e Martino (a proposito: per stanchezza o per altro, la società ha gestito la situazione con qualche esitazione). Mentre, sullo sfondo, si agitavano (e si agitano ancora) gli spettri del fallimento: perché il club è sempre aperto a nuovi investitori (a costo zero, ripete Tatò), ma i possibili acquirenti dimenticano di formalizzare una proposta concreta. Dall’umiliazione, intanto, nasce il disagio. Dal disagio, sfociano i rancori. E, dai rancori, sboccia l’intransigenza della parte più calda del tifo. Quello che è accaduto proprio domenica, cioè, è assolutamente al di fuori del normale e della logica. Il Barletta gioca (e perde, ma non è una novità) a Pontedera. Nel corso della gara, si infortuna e perde conoscenza il capitano, Fabrizio Di Bella (diagnosi: trauma cranico): e, allora, proprio dalla curva occupata dai sostenitori del Barletta, si alza per tre volte un coro becero, che al ragazzo augura il peggio. E’ il segnale di un punto di non ritorno già toccato. Ed è, soprattutto, l’ufficializzazione di un anno sprecato. Alla fine del quale, invece di raccogliere qualcosa, occorrerà seminare. Nella migliore delle ipotesi, ovviamente.