sabato 31 maggio 2014

La favola del Bari e di Çani

Il calore della propria gente, appena ritrovato. L’ottimismo, rubato a fatica tra spifferi di gelida incertezza. E una nuova società, sorta tra i misteri di un’asta fallimentare e una corsa al rialzo. Il Bari aveva quasi tutto: nuovi padroni, ancora non sappiamo distintamente quali, compresi. Ma rappresentati da un personaggio di solida notorietà, ancorché contestato a metà dell’opera: Gianluca Paparesta. Mancava soltanto il passaporto per i playoff, un traguardo inimmaginabile prima e anche durante il campionato. Anche un mese fa. Eppure, diventato obiettivo concreto, nel tempo. Perseguibile. Malgrado tutto. Nonostante tanti fattori avversi. Ultima tornata di regular season, sognare si può. Ancora. Unico risultato utile, il successo. E avversario ruvido, per questione di urgenze opposte: il Novara assetato di punti. La squadra di Alberti e Zavettieri, però, marcia in compagnia di cinquantamila fedeli. Silenziosi, distratti o lontani per anni. Ma recuperati nel momento del bisogno, in quell’arco temporale che segna il tramonto di un’epoca e l’alba di giorni nuovi. Cinquantamila fedeli tutti assieme, oltre le reti di recinzione. Prima in fila, davanti ai tornelli. E poi sui gradoni. Dove, si dice, non sarebbe transitato neppure un sospiro. O un dubbio. Il Bari e la sua gente. Lo stadio che esplode, quasi. E, di fronte, un avversario già condannato agli spareggi: prima di giocare. Ma il match è lungo e neppure tanto facile. L’avversario resiste, anche se il Bari preme. Per quarantacinque minuti. Anzi, l’avversario è subdolo. Intervallo, si riparte. E il Novara passa e se ne compiace. Vedendo la salvezza diretta, addirittura. Ma non è finita. Non può essere finita. La favola non può evaporare così. Perché questa è la favola del Bari che non muore mai. Del Bari che reagisce, che non si scompone, che urla e graffia. Edgar Çani è un albanese arrivato in Italia assai giovane, nel millenovecentonovantuno, in un giorno che nemmeno lui ricorda. Ma che è impresso nella memoria collettiva della gente di Puglia, della gente di Bari. Il giorno della Vlora, quel barcone sovraccarico di uomini e donne alla ricerca di un presente, ancor prima che di un futuro. Çani è un albanese accolto da Bari e sùbito partito, direzione Umbria. Per diventare, più tardi, calciatore. E per frequentare punti differenti della penisola: da Palermo a Padova, da Piacenza a Catania. Ma passando pure per la Polonia. Che, però, Bari e il Bari riacquisiscono, quasi per caso, nel mercato suppletivo di metà stagione. Poche apparizioni, un po’ di panchina. Quindi, l’opportunità della partita decisiva. Suo è il sigillo del pari. Suo è il gol del raddoppio. Quello che prelude alla terza marcatura di Polenta, dagli undici metri, e al quattro a uno definitivo e spettacolare firmato da Beltrame. A Varese, contemporaneamente, affonda il Siena. E, dunque, è festa. Bari ai playoff: Dopo una rincorsa frizzante. Dopo aver temuto i playout per mesi bui. Ma con lo spirito di sempre. Con entusiasmo nuovo. E con una società pienamente funzionante, soprattutto. E’ la favola del Bari. E anche di Edgar Çani. Ventitre anni dopo, il favore è ricambiato.  

venerdì 30 maggio 2014

Padalino, una scelta di testa

Tre anni per disegnare un Foggia da B. La società ci crede. Pensando di riconsegnare le chiavi del progetto a Pasquale Padalino, caudillo di una squadra transitata con qualche difficoltà dalla serie D, ma approdata (con innegabili meriti da ascrivere al club) prima nell’ormai estinta C2 e, dunque, nella terza serie unica. Allenatore emergente, Padalino. E, dunque, sufficientemente ambizioso. E ben considerato anche al di là del territorio comunale: per un passato di discreto prestigio e per un presente interessante. Amato, peraltro, pure dalla sua stessa gente. Che, magari, non gli ha neppure risparmiato – prima, durante e dopo la rincorsa alla C – qualche critica circostanziata. Spesso condivisa, dietro le scrivanie, da chi regge il Foggia. Comunque, un foggiano. Un pezzo di Foggia, Padalino. E, probabilmente, anche l’anello di congiunzione di questa macchina assemblata in fretta, due anni fa. E ritrovatasi esattamente dov’era, prima del fallimento. In anticipo sui tempi. Padalino, però, si rifiuta di continuare a guidare il Foggia. C’è la proposta formalizzata dal presidente Lo Campo, che qualsiasi foggiano non scarterebbe mai. Ma non l’approvazione del tecnico. Che, invece, lascia cadere la trattativa: guardando oltre, chissà. Forse alla serie B, quella immediata. Sembra che le richieste non manchino, del resto. Vedremo. Tre anni, per scalare un altro gradino, sono troppi: o, almeno, così riusciamo a decifrare tra una dichiarazione e un’altra. Padalino, probabilmente, non ama sprecare i giorni. Oppure, questa forma di diniego è soltanto la più elegante tra quelle a disposizione per giustificare le riserve su un progetto che, evidentemente, non lo convince molto. Eppure, qualcosa ci suggerisce che Padalino, in fondo, non sbaglia a lasciare l’incarico e a proseguire per suo conto, altrove. Perché lascia da vincente. O da vincitore. Nel momento più felice della propria avventura sulla panchina di casa. Dribblando il rischio e, quindi, preferendo la comodità di un’altra sfida, lontano. Ma lasciando, dietro di sé, anche il ricordo migliore. Scelta di convenienza, può darsi. Fredda e calcolata, può essere. Una di quella in cui la testa prevale sul cuore. Ma tecnicamente e tatticamente ineccepibile. I sentimenti, nel pallone, sono controproducenti, troppo spesso.

giovedì 29 maggio 2014

Barletta, soluzione veloce

Chiarezza. Barletta e i barlettani pretendevano esclusivamente chiarezza. E chiarezza è stata. Immediata, pronta per l’uso. Le pratiche per il passaggio di proprietà del primo club cittadino si delineano in fretta, nell’arco di pochi giorni. Roberto Tatò cede a costo zero, come promesso. E cede un bilancio sano: cioè, senza debiti. Come più volte vantato. Giuseppe Perpignano rileva soltanto gli oneri di gestione. Accollandosi, oltre alle spese e agli ingaggi che verranno, anche il peso dei contratti già stipulati. Nessun bluff: né da una parte, né dall’altra. Altrimenti, la rapidità di esecuzione non si spiegherebbe. Prendere atto di certi particolari è un dovere, innanzi tutto. E onore all’imprenditore che lascia: stanco di delusioni e critiche, ma serio sino in fondo. Il nuovo che avanza sembra persona pratica e motivata. Perpignano conosce già il pallone: quello della serie D, quello del nord (arriva da Rapallo, Liguria). Che, lo sappiamo bene, è altro mondo, altra cosa. Però, ci mette sùbito entusiasmo e metodo. Allora, con solerte tempismo, ecco pure il nome del tecnico e del diesse che lavoreranno sul Barletta, per il Barletta: Marco Sesia e Marco Rizzieri. Anche loro arrivano da quell’universo differente del calcio imbastito al settentrione: ma, intanto, è sin troppo chiaro che la nuova società punti ad ottimizzare le settimane, a velocizzare decisioni e strategie. La realtà quotidiana chiede, peraltro, molto di più. E la managerialità va supportata ogni giorno da altre qualità. Ma a Barletta, per il momento, non possono chiedere di meglio. Dal caos dell’incertezza all’agio della tranquillità. E la certezza di potere difendere ancora la terza serie. Tutto in poche ore. E’ andata proprio di lusso.

mercoledì 21 maggio 2014

Bari, sta cambiando il vento

Bari ha un’anima. E, tra i suoi percorsi fede, c’è anche il pallone. Riscoperto velocemente al tramonto del regno dei Matarrese. Un’anima e pure un cuore. Zittito dagli eventi più recenti, eppure pulsante. Ma anche una memoria: di quello che il calcio, in riva all’Adriatico, ha rappresentato negli ultimi cento anni. E una certezza: quello che il senso di appartenenza e il rapporto bisettimanale con l’erba possono ancora rappresentare. E pure il Bari ha un’anima. Un’anima giovane e entusiasta. E motivazioni a sufficienza per non accontentarsi: né di una salvezza agganciata tra marzo ed aprile, né del semplice consenso popolare, guadagnato proprio nel mezzo di una rovente emergenza societaria. Adesso, dopo il successo rimediato sull’erba di casa di fronte al Cittadella nel posticipo del lunedì, davanti a più di trentamila affezionati, è tutto ben chiaro. Nel capitolo che conduce dritto ai playoff c’è spazio pure per la formazione gestita da Alberti e Zavettieri. E come. Dalla quart’ultima piazza al quinto posto, nello spazio di mezzo girone di ritorno: mentre, davanti, si apre il rettilineo che accompagna al traguardo. Nessun inganno, è la verità: il Bari, ormai, vince regolarmente in casa e pure più lontano. Schiaffeggiando la crisi con vivacità ed energia. E inaugurando, in pieno maggio, il suo nuovo campionato, felice appendice delle sfide già vinte: quelle contro la recessione e lo scetticismo. Nelle difficoltà, la squadra si è fortificata, si è irrobustita. E si è migliorata. Giorno dopo giorno. Alimentandosi, infine, del progressivo riavvicinamento del grande pubblico, pronto ad assicurare un supplemento di calore e a trascinare entusiasmi nuovi. E senza badare a quanto accadeva attorno oppure nelle aule del tribunale, bypassando anche gli spettri delle aste deserte: per convenienza, più che per disinteresse. Perché, come raccontano le cronache più recenti, alla terza licitazione, accorrono quattro gruppi imprenditoriali e quello coordinato da Gianluca Paparesta si incarica infine di sistemare tante cose. All’improvviso, il Bari scopre di potersi disegnare un futuro, creduto perduto. E di possedere, nel contempo, un presente. Ancora tutto da scrivere. Ancora tutto da vivere.  

martedì 20 maggio 2014

Grottaglie, festa doppia

Contro il Vico, tecnicamente neanche tanto male: una di quelle squadre partite persino discretamente e poi risucchiate dalla classifica, nel corso della stagione. Contro le sue stesse paure: che due soli punti guadagnati in dieci match, gli ultimi disputati, avevano dilatato oltre il limite della normalità. E contro troppi pronostici: tutti rigorosamente chiusi. Per la natura del match (gara unica in campo avverso), per il gap psicologico (un solo risultato a disposizione) e per quello scadimento strutturale e mentale accusato negli ultimi tempi, in coda al momento di maggior vivacità. E apparso, ad un certo punto, addirittura inarrestabile. Invece, il Grottaglie va a prendersi in costiera quello che gli serve, il successo. E si regala un altro anno di serie D. Il quattordicesimo di fila. I playout non ammettono amnesie. Ma, questa volta, la formazione di Pettinicchio c’è: passando in vantaggio, abbastanza presto, con Fumai, ripescato dopo molti giorni scanditi da un’indisposizione di stagione. E senza concedersi allo scoramento, quando i campani pareggiano, monetizzando una miscela di ingenuità e insicurezza di Prete. Ci pensa, alla fine, Formuso: il sigillo vincente è tutto suo. Due a uno: non ci avrebbe scommesso chiunque. Capolavoro di realismo, verrebbe da aggiungere. Senza troppa enfasi, prestazione solida, pulita. L’Ars et Labor si ricompatta nel momento essenziale: ritrovando stimoli, vigore, coordinate. Giocando da squadra consapevole delle proprie prospettive, sicura del risultato che al novantesimo la ricompenserà. E resistente al forcing finale dei campani, ma anche ai sette minuti di recupero che sembrano voler rimandare o zittire la festa. Ma la festa, prima o poi, esplode. Festa doppia. Per la conservazione della serie D, prima di tutto: arrivata in ritardo sui tempi programmati. E, comunque, centrata. Ma pure per la sopravvivenza del pallone a Grottaglie. Che, di fronte alla dura realtà dell’Eccellenza, si sarebbe liquefatto. Potete crederci.

lunedì 19 maggio 2014

Taranto, fine della corsa

L’Arezzo non abbaglia. E non dispone neppure del campo, come certe cronache tentano di raccontare. Semplicemente, attende: il momento ideale per graffiare. E attende un bel po’: praticamente, una gara quasi intera. Alzando i ritmi nell’ultimo quarto d’ora di gioco: dopo aver gestito il traffico con una terza linea alta e un atteggiamento rispettoso. Non rinunciatario: ma poco più che timido. Lasciando, però, poca manovra ad un Taranto di per sé svuotato, fisicamente arrivato. La formazione di Papagni è stanca: s’intuisce da sùbito. E, agli albori del secondo tempo, l’energia è già evaporata. Tre gare in una settimana si pagano. E soprattutto, corrodono quei supplementari del mercoledì precedente, ai quali l’ha obbligato l’ostico Monopoli. Ciarcià, è vero, rientra da una lunga vacanza. E riappare nell’undici titolare anche Molinari. Mentre Clemente, in coda alla lunga squalifica che l’ha fermato, si accomoda soltanto in panca. Con Mignogna. Ma, evidentemente, non basta. Troppe pedine accusano la fatica di una stagione intensa. E poi, in mezzo al campo, i problemi sono noti: mancano ordine e fantasia. Così, il primo match della terza fase, quella dei playoff allargati su scala nazionale, è immediatamente scomodo. L’Arezzo, dicevamo, non si apre e non si abbassa, fluttuando sull’erba. Ma qualcosa tenta ugualmente. Nulla di avvincente, tuttavia: perché, davanti, i toscani non sembrano troppo maliziosi. Però il Taranto, che può appoggiarsi sulla spinta del pubblico amico, pressa zero e conclude pochissimo. L’unica occasione seria càpita a Balistreri, che segna: offside, dice il direttore di gara. Poi, più niente. I calci di rigore, in assenza dei tempi supplementari, appaiono l’epilogo più ovvio. La gente di Papagni li attende, come una liberazione. Ma l’Arezzo, finalmente, capisce che può osare. E, a quattro minuti dal novantesimo, il mediano Carteri sistema la questione. Amaranto alle semifinali. Il cammino del Taranto, invece, si interrompe. Complicando la pratica burocratica per la domanda di ripescaggio. Che, comunque, dovrebbe essere inoltrata lo stesso (converrebbe, effettivamente). L’inclusione alla fase successiva, però, avrebbe pesato un po’: e questo è chiaro, sin da ora. Ma, probabilmente, questo organico ha ottenuto dalla sua stagione strana e discontinua quello che sarebbe stato logico aspettarsi. E niente di meno. Anzi, forse qualcosa in più. Occorre farsene una ragione, in riva ai due Mari.

venerdì 16 maggio 2014

Foggia, il progetto si rafforza

Foggia smaltisce lentamente l’euforia. La sua legittima euforia: la serie C, la nuova serie C, è oggettivamente un approdo fondamentale. Innanzi tutto, per certe premesse di neanche due anni fa (fallimento e inserimento tra i Dilettanti). Ma anche per aver dignificato come merita la progettualità ambiziosa eppure composta del gruppo di comando del club: sempre realista, ma mai disattento agli input della realtà. Cioè, puntualmente presente. E quasi sempre sotto traccia. Oppure, il lavoro concreto e lungimirante di Padalino e Di Bari: abili nell’assemblare esperienza e rampantismo dello scacchiere (tutti ci provano, a qualsiasi latitudine, in ogni categoria: pochi riescono, se facciamo due conti). E poi sì, è chiaro: la serie C, oggi come oggi, non può non coinvolgere una piazza come quella di Foggia. Forse, anche perché stiamo tornando a riassaporare quelle atmosfere della terza serie di un tempo. Dovrebbe essere, quello che sta nascendo, un campionato rivalutato dalla rivisitazione del Palazzo. Più che dal punto di vista tecnico, da quello dello spessore mediatico. Un torneo con un peso specifico maggiore, diciamo così. E dove il blasone della concorrenza non mancherà. Anzi. Dopo l’euforia, però, viene anche il momento di riunire i concetti di base e di razionalizzare le idee. La società dauna, e di questo va dato atto, non ha sciupato troppe settimane. Riallacciando immediatamente il filo del discorso interrotto dalla festa. E ripartendo il piano della scalata alla B nelle prossime tre stagioni. Dalla prima riunione programmatica postpromozione, vengono fuori alcuni numeri: è previsto lo stanziamento di un milione e ottocentomila euro per la stagione che verrà. Due milioni e mezzo per quella successiva. E, come prevede la strategia dell’investimento crescente, il Foggia conta di destinare tre milioni e duecentomila euro per il 2016/2017. Tra parentesi, non pochi, oggi come oggi. Il disegno, ovviamente, potrà tenere di conto di alcune variabili, come lo sfruttamento delle risorse del settore giovanile (che andrà, però, rafforzato) e, soprattutto, dell’accostamento di altri imprenditori interessati a fare calcio in Capitanata (una volta latitavano: e adesso?). Ma le buone intenzioni sembrano, almeno, garantite. Sin da ora. Aggiungiamo, anzi, che le programmazioni migliori sono quelle che si pianificano presto e si sviluppano in prospettiva. Tre anni sono un arco di tempo appropriato e una previsione responsabile, seria. Di più: piace soprattutto quella chiarezza di fondo nelle cifre. Che spiega, da sùbito, la soglia di risorse entro la quale occorre operare. E oltre la quale non si può navigare. Affinché tutti sappiano, con adeguato anticipo, qual è il raggio d’azione del club. E per tracciare - alla città e alla tifoseria - il giusto binario di percorrenza. Giusto per non generare, in un domani più o meno prossimo, inutili illusioni.

giovedì 15 maggio 2014

Il Monopoli si ferma, il Taranto avanza

E, infine, la finale dei playoff del raggruppamento appulocampano di D si gioca a Taranto, nella sua sede naturale. E a porte aperte. Non tutte, per la verità: quelle della Curva Nord, la casa della parte più calda del tifo jonico, rimangono chiuse. Chissà poi perché, dal momento che le cattive azioni, prima e durante l’ultimo match, si sono consumate anche altrove. Iin tribuna, per intenderci. La squalifica dell’impianto, però, viene cancellata dal secondo grado di giudizio, in meno di ventiquattr’ore. Proprio mentre viene pubblicizzato il campo neutro, quello del Fanuzzi di Brindisi. Ingaggiato, peraltro, dopo aver ristretto fortemente i tempi e aver forzato il regolamento (settanta chilometri di asfalto non sono cento, come prevede la norma originaria). Ma così è, in Italia. E conviene abituarsi. O rassegnarsi. La finale trafigge un mercoledì autunnale di maggio e dribbla il Giro d’Italia che riparte proprio tra i due Mari. Di qua il Taranto, più protetto e discreto, schierato senza l’assillo del successo tassativo. Di là il Monopoli, più dinamico e rapido, ma obbligato a forzare il destino di un match che non gli consente neppure di pareggiare. La formazione di Cocco è più animata dall’urgenza e si sente: la gente di Papagni si spaventa un po’ e, allora, provvede a irrobustirsi in entrambe le fasi, alzando il quoziente di aggressività. Molinari è acciaccato e agli jonici viene a mancare il terminale naturale. Gli adriatici, di contro, cominciano a perdere un po’ di palloni importanti, ma concludono più spesso (e senza precisione) in virtù di una manovra più diretta. Il gol, tuttavia, lo trova il Taranto, con l’ex Balistreri, poco prima dell’intervallo. E la marcatura spacca la partita, indirizzandola sino al novantesimo. Anche perché, nella ripresa, la migliori intenzioni del Monopoli si slabbrano e la pressione non si evolve. Mentre, nel tempo, il Taranto disciplina correttamente la gestione delle situazioni. Ma, proprio al novantesimo, Laneve (il ragazzo entra un’altra volta a gara in corso, segnando) sbuca al posto giusto e nel momento giusto, aprendo la strada dei supplementari. Dove il Monopoli arriva con ossigeno limitato e il Taranto, forse, ancora più stanco. E dove la squadra di Papagni riesce comunque a conservare il vantaggio di partenza, con sacrificio e sudore. Il Monopoli si ferma, ma credendoci sino in fondo, E rimediando una gran bella figura. Il Taranto avanza, spendendo molto e cominciando a temere il nuovo impegno, ormai vicino (domenica prossima). Il verdetto è quello più pronosticato. E, crediamo, anche complessivamente credibile. La seconda piazza in regular season di Prosperi e compagni, di fronte alla quarta raggiunta da Lanzillotta e soci, significa pur qualcosa. E qualcosa valgono anche i tre scontri diretti complessivi: in cui il Taranto rimedia sempre il risultato. L’ultimo dei quali consente di sperare ancora in una promozione di scorta. Sempre che la società bimare confermi la solidità economica che vanta di possedere. Piaccia o no, il ripescaggio è una questione di campo, ma anche e soprattutto di scrivania.

martedì 13 maggio 2014

Lecce, pronostico rispettato

Partono i playoff, anche quelli di terza serie. E il Lecce risponde, da sùbito. Il primo step è superato, ma non senza apprensioni. La qualificazione al turno successivo è garantita solo dopo i calci di rigore: a via del Mare scende il Pontedera e il pareggio maturato nei tempi regolamentari e in quelli supplementari è insufficiente. Il terzo posto della regular season, del resto, concede qualche vantaggio, come il diritto a giocare sul proprio terreno di gioco: ma il passaggio del turno va pure guadagnato, in qualche maniera. Traducendo, si soffre. Com’è pure normale che sia. Il pronostico riceve il rispetto che pretende, però i toscani convincono complessivamente di più, sul piano della manovra. E, anzi, la formazione di Lerda deve aggrapparsi alla performance positiva del suo guardasigilli Caglioni, che blocca un paio di soluzioni toscane proprio in prossimità del novantesimo: quando, cioè, sarebbe venuto a mancare il tempo per rimediare. Il Lecce è sbiadito, un po’ svagato. E, probabilmente, l’atteggiamento tattico (una sola punta, Zigoni) finisce per inviare alla squadra un messaggio annacquato. Il Pontedera gode, ad un certo punto, di troppo campo e, più tardi, un calo fisico di Bogliacino e soci non agevola il compito. Ma, soprattutto, il problema sembra mentale: magari, è proprio quel vantaggio dettato dalla classifica ad irretire il gruppo. A limitarlo. A frenarlo. E anche la consapevolezza di essersi cuciti addosso un finale di stagione particolarmente brillante allontana l’essenza della realtà. Ad ogni modo, il Lecce bello ed autorevole di un mese addietro si affloscia all’improvviso, quando sarebbe invece opportuno offrire qualcosa in più. Adesso, però, il format degli spareggi per la seconda piazza si modifica, passando dalla gara unica al doppio confronto (domenica, ad esempio, si viaggia per Benevento e poi ci si ritrova nel Salento). Modellando una situazione strana, dal punto di vista estetico e logico: perché un calendario caotico non giova al pallone, soprattutto di questi tempi. Ma, chissà, persino conveniente per il Lecce. Che potrebbe inconsciamente avvertire il bisogno di doversi giocare la promozione con le pari opportunità. A mente sgombra.

lunedì 12 maggio 2014

Playoff, derby di Puglia

Tempo di playoff. E’ il momento di esibire gambe e testa. E il Taranto, mentalmente, è più pronto del Marcianise, protagonista nella regular season, ma un po’ distante e non eccessivamente convinto nella lotteria degli spareggi di fine campionato. Che, forse, serviranno e, forse, no: ma che, intanto, andrebbero affrontati con più intensità e maggiore presenza scenica. Eppure, ad un certo punto del match, i casertani scoprono di poter rincorrere il risultato e, con un uomo in più (Pulci si fa espellere troppo presto: ancora una volta, la gente di Papagni si lascia tradire dalla foga, se non dalla tensione), intensificano il ritmo. Lo svantaggio di un gol, a quel punto, non sembra affatto incolmabile: anche perché il Taranto ha ormai ceduto troppo campo, avvertendo i sintomi di un timore diffuso. Ma la manovra della formazione di Fogliamanzillo si sfilaccia spesso sull’onda di una brillantezza ormai perduta. E, oltre tutto, l’imperizia del guardasigilli campano Imbimbo regala agli jonici un altro gol, il terzo: quello che praticamente chiude la sfida. Così Molinari e soci, non senza soffrire qualcosa, raggiungono nella finale del girone appulocampano di D il Monopoli, che nel frattempo, si libera della Turris. Ma il responso è, fondamentalmente, corretto: il Taranto offre qualcosa di più dal punto di vista della quantità. Malgrado le assenze copiose: tra le quali spicca quella di Ciarcià, l’unico centrocampista dell’organico sostanzialmente in grado di assicurare idee e un po’ di qualità. Che due mediani di filtro e fatica come Muwana e Menicozzo, ovviamente, non possono garantire. Allora, è soprattutto dalle corsie esterne (piacciono Mignogna e Migoni) che spuntano le cose migliori. Anche se, poi, la manovra lievita per una ventina di minuti e non di più: appena il Taranto, cioè, si dota di maggior rapidità e aggressività. E appena i suoi singoli scavano la differenza (storia vecchia). La storia, dunque, continua. E si torna in campo prestissimo: mercoledì, per la precisione. E in campo neutro (e a porte chiuse). Perché, intanto, il giudice sportivo squalifica lo Iacovone, turbolento prima e durante il match. Nonostante non sia ancora chiaro se i grossi petardi esplodono all’interno o all’esterno della struttura (poco importa: la responsabilità oggettiva del club permane in entrambe le ipotesi). Però, il derby con il Monopoli, tornato compatto e lucido al momento decisivo (cinque gol in trasferta fanno morale), sembra voler finalmente premiare il calcio pugliese di quinta serie, punito dalla maggior concretezza del Matera. Ma, soprattutto, la squadra che saprà imporsi tecnicamente. Certo, è il momento di sfruttare testa e gambe. Ma, a parità di motivazioni (che a jonici e adriatici non mancano, oggettivamente) potrebbe e dovrebbe decidere il calcio prodotto. Almeno per una volta. Ci sono tutti gli ingredienti per crederlo: e la cosa non ci dispiace.

mercoledì 7 maggio 2014

Longo, la svolta del San Severo

I dati mentono difficilmente. Dei numeri occorre tenere conto. E le statistiche, nel caso specifico, raccontano chiaramente: con l’arrivo di Emilio Longo sulla panca, il San Severo si ricrea, si ravvede, si fortifica. Immediatamente dopo il quattro a zero di Monopoli, la formazione dauna è incerta, fragile, moralmente fiaccata. L’involuzione sembra radicale. La classifica sprofonda e il primo responsabile tecnico della stagione, Danilo Rufini, viene accantonato. Persino ingiustamente, in quel preciso momento storico: perché l’organico, pesantemente saccheggiato tra il girone di andata e quello di ritorno, non sembra oggettivamente assicurare robustezza e alternative. L’avvicendamento, però, è tonificante. E non occorre neppure attendere troppo. La squadra reagisce, migliora l’approccio con ogni gara, cresce per intensità e densità, produce e realizza di più, acquisisce dimestichezza con il risultato e, abbastanza rapidamente, riemerge dal fondo della graduatoria. Il San Severo, cioè, un mese prima della conclusione della regular season, è ragionevolmente al riparo da complicazioni fastidiose e, malgrado la matematica conforti solo all’ultimo turno, la salvezza virtuale arriva persino in anticipo sui tempi. L’ultimo tassello del puzzle è il pareggio maturato di fronte al Francavilla di Lazic, sul neutro di Lucera, la casa di un anno intero: un impegno di pura formalità. Ma sono i trentasette punti collezionati a trascinarsi il sapore dell’impresa. Forgiata da un atteggiamento evidentemente più positivo e propositivo e dal lavoro applicato prima sulle teste e poi sulle gambe della squadra: dotata di risorse tecniche limitate, ma anche di tempra. La salvezza, senza neppure transitare dai playoff, è oggettivamente un traguardo inatteso. E, ad un certo punto del cammino, inimmaginabile. Anche per quell’antipatica controindicazione che si è rivelata l’indisponibilità, per tutta la stagione, del proprio terreno di gioco: che, ora, diventa la condizione essenziale per poter imbastire il progetto che conduce al prossimo torneo. Prima il Ricciardelli, poi la rielaborazione dell’organico: la lista delle priorità è già pronta. Mentre il gestore della panchina sembra, sin da adesso, un punto fermo: Longo si è già guadagnato la riconferma. Se vorrà rinsaldare il rapporto con il club, dovrà soltanto comunicarlo.

martedì 6 maggio 2014

Martina, game over

Nelle sfide che tracciano un segno, il Martina nicchia e si arena. Così nel corso di un campionato speso a rimorchio dei dubbi e delle ansie. Così nell’atto conclusivo di una regular season che, a questo punto, non presuppone appendici. A Messina si gioca per due risultati: il successo, che servirebbe a catturare il miglior piazzamento nella griglia dei playout, e il pareggio, utile ad entrare nel circolo delle quattro società che si giocano l’unica posto rimasto nell’istituenda C unica. E, invece, oltre lo Stretto schizza l’unico score indigesto. La sconfitta matura ad una manciata di istanti dalla chiusura del match e della stagione: dunque, quando non è neanche più possibile riparare. E, proprio per questo, brucia tanto di più. Soprattutto, se proviamo ad analizzare sommariamente la partita, perché la formazione di Tommaso Napoli conduce temporaneamente con una rete di vantaggio, dopo aver ribaltato la precoce marcatura di Costa Ferreira. Il portoghese, però, bissando la soddisfazione personale, più tardi vidimerà il ritorno tra i dilettanti di un club, il Martina, che aveva creduto di poter stoppare il declino con una campagna di rafforzamento invernale generosa e beneaugurante. La retrocessione, piuttosto, smentisce qualsiasi forma di ottimismo alimentata – non senza fondamento – durante il percorso: perché, malgrado la prossima serie D sostituisca, di fatto, questa Seconda Divisione (per intenderci: si passa da una quarta serie ad un’altra quarta serie), pur sempre di retrocessione si tratta. Dettata, lo riassumiamo ancora una volta, da un avvio di campionato zoppicante, da qualche intervento arbitrale penalizzante e, innanzi tutto, dalla lunga sequenza di match ball inutilizzati, tra febbraio ed aprile. Ma anche da una consistenza di squadra mai pienamente raggiunta, nonostante l’innegabile lievitazione delle idee e del modulo di gioco. In una sola frase: la sensazione che tormenta è quella di un Martina persino vitale, nel punto cruciale del torneo, ma incapace di offrirsi per intero e di gestirsi sempre e comunque. Sintetizzando ancora: il Martina sembra aver dato (e speso) tanto, nel girone di ritorno. Ma non abbastanza. Pur avendone facoltà, riteniamo noi. Molto spesso, tuttavia, e di questo ne siamo perfettamente consapevoli, i campionati nascono male e finiscono peggio. E sappiamo pure che nulla è davvero scontato, nel pallone. Dove qualsiasi delusione cocente, di solito, apre porte e finestre a non pochi dubbi. Che, a queste latitudini, già si schierano minacciosi. Ad esempio: i sovvenzionatori esterni apparsi a lavori in corso (Ghirardini, ma non solo) investiranno ancora in serie D? E poi: il gruppo di lavoro al vertice societario potrà nuovamente incaricarsi di programmare la scalata al professionismo (vincere la D, da qui in avanti, implicherà un sacrificio economico suppletivo)? Infine: il pallone, in Valle d’Itria, possiede un futuro oppure no?

lunedì 5 maggio 2014

Bisceglie, lampi sui titoli di coda

L’anonimo campionato dl Bisceglie si evolve proprio in prossimità dei titoli di coda: quando il risultato è assolutamente svincolato dall’urgenza, quando il senso della stagione si è ormai annacquato e quando, soprattutto, la classifica della formazione affidata a poco più di due mesi dal traguardo a Carlo Prayer è impermeabile a qualsiasi desiderio. A salvezza ormai maturata e a playoff irraggiungibili, però, Zotti e soci mettono assieme sette punti negli ultimi centottanta minuti: sbarrando, oltre tutto, la strada alle tre principali candidate alla retrocessione diretta. Deve accontentarsi di un punto la Puteolana e, di seguito, cedono il Grottaglie e il Gladiator: e sono, infatti, i sammaritani a sprofondare in Eccellenza. Non concede sconti a nessuno, il Bisceglie. Dopo aver promesso impegno massimo nell’ultima fase della regular season. E dopo aver sollevato non pochi dubbi negli avversari appena incontrati: timorosi di aver pagato per tutti. Ma, alla fine, smentiti dai fatti. Complimenti al club stellato, allora. E complimenti pure al suo nocchiero: fiero di aver raggiunto, a carriera inoltrata, la panchina di una prima squadra. E di essere stato investito dell’incarico da una società di prestigio, in un torneo di rilievo. Del resto, assicurando l’assoluta regolarità della battaglia per la salvezza, Prayer si era caricato un impegno gravoso: non solo nei confronti degli avversari, ma della sua stessa gente. Sapendo, peraltro, di giocarsi parecchie chances personali. Giocando anche con la sua stessa riconferma. Che non è affatto sicura, neppure adesso (primo, perché patron Canonico deve ancora decidere come comportarsi, in prospettiva futura). Ma che, oggi, non appare una soluzione impossibile. Il tecnico barese, intanto, ha colto l’occasione offertagli con serietà granitica, con dedizione solidissima. Contando, come lui ha stesso ha più volte sottolineato, sulla disponibilità tangibile di chi va in campo e sulla complicità di tutto l’ambiente. Finendo per alleviare le preoccupazioni sorte sulla piazza nel momento in cui il suo predecessore Favarin si ritrovò sollevato da qualsiasi responsabilità. Intuendo, probabilmente, che il Bisceglie necessitava innanzi tutto di due ingredienti, per concludere il proprio cammino nel miglior modo possibile: la tranquillità, nello spogliatoio e in campo, e la libertà di espressione. Quella che ha accompagnato nella fase conclusiva del torneo i suoi big: appartatisi prima di decollare e poi ricomparsi, a collettivo ricompattato.